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giovedì 26 settembre 2013

La rivolta delle monache scostumata.



Il monastero di S. Arcangelo a Baiano è da tempo noto agli studiosi per le scostumatezze sessuali delle monache che lo abitavano e che spinsero le autorità ecclesiastiche ad inviare come ispettore il severo Andrea Avellino, divenuto poi santo, ad indagare.
Il vecchio convento era sito nella antica zona furcellensis ed è citato anche dal Boccaccio nel Filocolo, perché per poco vi soggiornò la sua Fiammetta.
Esso sottendeva all’omonima chiesa e fu una delle prime strutture religiose volute dagli Angioini per festeggiare la vittoria sugli Svevi e venne edificata su un luogo di culto già dedicato a San Michele Arcangelo, sui resti di un precedente sacello pagano. La denominazione a Baiano era dovuta alla circostanza che nella zona risiedeva una folta colonia di cittadini provenienti da Baia, come riferito dal Pontano. Il monastero godeva del patronato sulle acque della Fistola che sgorgavano nei pressi grazie ad un antico privilegio reale.
Ad esso potevano accedere solo novizie provenienti da famiglie di acclarata nobiltà napoletana e la conferma si è avuta con la pubblicazione di nomi altisonanti come Giulia Caracciolo, Agnese Arcamone, Chiara Frezza e Luisa Sanfelice citati in un libello apparso in Francia nel 1829, intitolato “Cronache del convento di Sant’ Arcangelo a Baiano” tradotto e stampato a Napoli nel 1860. Lo stesso Benedetto Croce aveva trovato tracce dell’episodio in uno scritto seicentesco “Le counvent de Baiano” e parla della sua scoperta nei “Nuovi saggi sulla letteratura italiana Seicento” edito nel 1931.
Andrea Avellino, già padre spirituale del convento, accertatosi delle frequenti orge che si svolgevano tra le sacre mura raccomandò al Cardinale Paolo Burali d’Arezzo il trasferimento delle monache nel convento di San Gregorio Armeno e la immediata chiusura della struttura, che abbandonata allo stato laicale si trasformò in poco tempo come un rudere.
Per gli studiosi dell’esoterismo la vicenda riveste un grande interesse e la sua drammaticità può essere compresa solo con una lettura specialistica, che tiene conto di alcuni dettagli:
1. il monastero poggiava su una base pagana, luogo di culto scelto dal sacerdote rabdomante in grazia delle forze magnetiche che dovevano favorire lo svolgersi dei “misteri”
2. il divieto di accedervi per le donne di umili origini.
3. la presenza contigua di un corso d’acqua “rituale”
Altre notizie sull’episodio a luci rosse potremo averle solo quando gli studiosi avranno accesso alla relazione giacente inaccessibile negli archivi segreti del Vaticani.
Di recente altre storie simili sono state rese note grazie al lavoro di abili archivisti, come Candida Carrino che ha pubblicato un interessante contributo dal titolo esplicativo “Le monache ribelli”. I francescani, con il loro rigore spirituale, non l’hanno mai fatta passare liscia ad alcun uomo o donna di Chiesa, peccatore o peccatrice. Saranno pure misericordiosi, come prescrive Dio con la sua pazienza ma quando si tratta di giudicare gli uomini di Chiesa che sbagliano il rigore è come il saio. D’obbligo. Scatta soprattutto quando, muniti di poteri speciali canonico di “visitatori”, una specie di ispettori della fede o verificatori delle regole cristiane per conto della gerarchia, intercettavano comunità con vite sregolate, ai limiti del Vangelo se no addirittura in aperto contrasto con esso. Come i peccati della carne di uomini votati a Dio e alla castità.
Andò più o meno così a Napoli nel 1587 quando piombò il francescano, di origini partenopee, Bartolomeo Vadiglia. Per conto di Papa Sisto V, in ventun giorni, ispezionò i monasteri femminili. E senza tanti giri di parole spedì una relazione al Papa: sono “bordelli pubblici”, sono “case di meritrici”. Stop. Perfino padre Michele Miele, uno storico della pietà spesso chiamato dalla “scuola” di Gabriele De Rosa a decrittare il mondo del “vissuto religioso”, forse, strabuzzò gli occhi quando scoprì questo documento sui conventi femminili, bordelli del Cinquecento.
Ma ora, a quella scoperta se ne aggiunge un’altra, grazie alle edizioni Intra Moenia, il bel racconto di una suora, nobile napoletana del tempo, donna Fulvia Caracciolo non solo sulla vita interna dei monasteri femminili, ma anche sul significativo racconto della riluttanza, spesso incomprensione, nella ricezione di decreti e regole venute fuori dal Concilio di Trento. Di qui, la ribellione delle monache napoletane alla gerarchia: in quel tempo, e siamo nel maggio del 1566, arcivescovo di Napoli Mario Carafa notifica la costituzione Circa pastoralis di Papa Pio V sulla imposizione della clausura per eliminare abusi, nei monasteri dove c’era stato il fenomeno delle monache forzate ad opera delle famiglie nobili della città.
A Napoli nel Cinquecento ci sono 36 monasteri femminili. A San Gregorio Armeno c’è suor Fulvia Caracciolo con il piglio della scrittrice, prim’ ancora che della donna votata, o fatta votare dai suoi nobili familiari, al monachesimo nella Napoli del ‘500. Ed è tanto brava ed attenta a raccontare pagine del monachesimo femminile napoletano del tempo che appare perfino come una inviata speciale ante-litteram, impegnata a narrare quel che fu la Chiesa meridionale, con le sue strutture della religiosità, negli anni successivi al concilio di Trento. 
Perché tra vita e nuove regole conciliari, tra usi e costumi del vissuto religioso e decreti della Chiesa del tempo e nel suo tempo, si colloca questa straordinaria scoperta del “Breve compendio della Fundatione del Monistero di Santo Ligoro di Napoli con lo discorso dell’antica vita, costumi e regole che le moniche di quelle osservavano ed d’altri fatti degni di memoria successi in tempi dell’autrice” Fulvia Caracciolo era nata nel 1539, entrò in convento ad otto anni, insieme ad altre due sorelle, Anna ed Eleonora. Forse, aveva ragione uno dei protagonisti del romanzo di Umberto Eco, ne “Il pendolo di Foucault”, quando scrisse che per capire il percorso del “vissuto religioso” bisogna comprendere che “da un sistema di divieti si può capire quel che la gente fa di solito e se ne possono trarre bozzetti di vita quotidiana”. Meglio ancora quando lo scavo negli archivi conduce a riscoprire documenti e fonti che non solo possono aiutare gli storici della religiosità meridionale ma, soprattutto, aprono squarci di vita vissuta nella Napoli del ‘500. Di qui il racconto delle monache che si ribellarono alla clausura. Molte lasciarono i conventi, moltissime si sottomisero.








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