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mercoledì 4 aprile 2012

Una infinita storia al femminile


20/1/2011


A Napoli le donne sono state da sempre delle grandi protagoniste della storia e spesso la gioia, i dolori ed i furori della città hanno trovato espressione in personaggi femminili, dalla forza impulsiva, dalla irruenza generosa, dallo slancio materno, una storia fatta di donne che vivono al di fuori del tempo, custodendo dentro di sé il mistero della vita e della morte
Tutto ciò avviene da tempo immemorabile fino ai nostri giorni, come cantano le parole della canzone di Baccini Le donne di Napoli: “sono tutte delle mamme; le donne di Napoli si gettano tra le fiamme”.
All’ombra del Vesuvio si sono  espressi nei secoli degli archetipi ideali della città femmina dal ventre materno.
La Napoli generosa e tenace è stata rappresentata da Filumena Marturano, quella terribile e materna dalla Medea di Porta Medina, l'eroica da Marianna De Crescenzo, detta la "Sangiovannara", la quale combatté a fianco dei garibaldini durante il crepuscolo borbonico, fino a giungere ai giorni nostri con le Madri coraggio dei quartieri spagnoli, emule di Don Chisciotte, che combattono la loro difficile battaglia contro la droga e le signore della camorra, che riproducono una sorta di primato simbolico della donna nella cultura napoletana.
Tutte queste figure di donne sono tra loro molto diverse, alcune parto della fantasia di qualche scrittore, ispiratosi a personaggi realmente vissuti, altre sono donne in carne ed ossa, sangue e muscoli, personalità vulcanica e furia indomabile.
Napoli è stata sempre definita una città femmina per il suo adagiarsi placida come una sirena sul mare e per la delicata sensualità del suo clima, dei suoi odori e dei suoi colori. La storia cittadina ha visto, sin dalle primitive leggende legate alla sua fondazione, un susseguirsi di figure femminili assurte al ruolo di protagoniste: dalla mitica Partenope, a tante regine e sante protettrici, aristocratiche e popolane, intellettuali, eroine, donne di spettacolo, non tutte nate a Napoli, ma che hanno fatto della città la loro patria di elezione, lasciandovi un segno tangibile con le espressioni del loro ingegno e della loro creatività.
Tra le figure femminili più antiche vanno ricordate le Matres matute, i cui ex voto fittili, sono conservati nel museo di Capua. Esse rappresentano uno dei culti matriarcali più antichi dell’area mediterranea. Altre figure femminili avvolte nella mitologia sono le sibille, dette anche pitonesse, vergini sacerdotesse di Apollo, adibite agli oracoli, alcuni dei quali, tra i più famosi, erano localizzati nei dintorni di Napoli come la Sibilla Cumana, che fungeva da tramite tra i vivi ed i morti.
Anche le sacerdotesse nella Napoli greca avevano un ruolo rilevante, a differenza che a Roma ed alcuni culti come quello di Demetra Cerere furono importati nella capitale del mondo proprio dalla Campania.
Da queste antiche figure derivano delle figure classiche della tradizione popolare napoletana dalla Bella ‘Mbriana, un’entità femminile invisibile, ma immaginata come una donna bella e capricciosa, che se ben accolta protegge la casa ed i suoi abitanti, alla fattucchiera, detentrice di un arcano sapere e di misteriosi poteri, fino alla janara, che prende il nome dall’antica dianara, sacerdotessa di Diana, connotata di simboli funesti e da riti infernali.
Altre figure come le tre sorelle: Donnalbina, Donna Romita e Donna Regina, innamorate dello stesso uomo e fondatrici di tre famosi conventi, create dalla fertile fantasia di Matilde Serao in una sua leggenda ambientata nella Napoli trecentesca di Roberto d’Angio, sono divenute presso il popolino, dopo averne ascoltato tante volte la storia, personaggi reali.
Vi sono poi le numerose sante napoletane, molte elevate al rango di patrone della città al fianco di San Gennaro e di tanti celebri colleghi maschi. Da S. Restituta a S. Patrizia, da S. Candida a S. Maria Francesca delle Cinque Piaghe, l’ultima in ordine di tempo ad essere salita alla gloria degli altari.
Vi sono poi le grandi benefattrici come Maria Longo, fondatrice dell’ospedale degli Incurabili o Orsola Benincasa, una figura di spicco nel panorama religioso cittadino della Controriforma, alla quale è intitolata una delle università napoletane.
Lungo è l’elenco di grandi regine, alcune pie, altre passionali, quasi tutte sfortunate. Tra queste spiccano Giovanna I e Giovanna II, angioine, Lucrezia, regina ma senza corona, di cui si invaghì Alfonso il Magnanimo, e poi le spose dei re aragonesi, per concludere con una famosa viceregina: Donn’Anna Carafa, innamorata di Posillipo e divoratrice insaziabile di uomini.

Pugnaci e volitive furono poi le sovrane borboniche, da Maria Amalia a Maria Caterina, la più dispotica del reame, fino a Maria Sofia, l’ultima regina di Napoli, che con grande dignità rimase al fianco del marito, mentre si consumava la tragedia finale di casa Borbone.
Vi è poi un lungo capitolo che include donne diverse da Berardina d’Amalfi, compagna di Masaniello ad Emma Hamilton, l’avventuriera che tenne in mano le sorti del regno, grazie alle sue grazie ammaliatrici.
Di grande rilievo fu il ruolo che ebbero le donne nel 1799, ricordiamo la volitiva Eleonora Pimentel Fonseca, alla quale hanno dedicato pagine memorabili i suoi contemporanei ed in seguito Benedetto Croce, Striano, che ne ha fatto la protagonista del suo romano storico Il resto di niente e Dacia Maraini con il suo testo teatrale Donna Lionora giacubina, nel quale si ricorda la scena dell’impiccagione, quando la folla sghignazzante poté sbirciare sotto la sua gonna e Luigia Sanfelice, eroina per caso, che fu anche lei giustiziata in maniera atroce, in un lago di sangue e con il boia che le troncò la testa con un coltello.


Infinito è poi il capitolo delle donne di ingegno, che hanno lasciato una traccia tangibile nella storia del pensiero e dell’arte, dalle pittrici: Artemisia Gentileschi ed Angelica Kauffmann, nate altrove ma pienamente napoletanizzate, alle indigene, figlie d’arte, Elena Recco e Dianella De Rosa, più conosciuta come Annella di Massimo, per il fantasioso racconto del De Dominici, che la identificava come amante dello Stanzione, fino al nutrito drappello delle scrittrici, quali Matilde Serao e Anna Maria Ortese o delle vedette dello spettacolo, come Elvira Donnarumma, una leggenda del palcoscenico, Gilda Mignonette, la cantante degli emigranti, che faceva impazzire la folla di New York con l’indimenticabile ‘A Cartulina ‘e Napule, Titina De Filippo, l’indimenticabile interprete di tante commedie o Sophia Loren, archetipo della bellezza napoletana nel mondo ed ambasciatrice delle forme procaci e generose.
E vogliamo concludere parlando di un aspetto poco edificante, ma di pregnante attualità: il ruolo occupato dalla donna nella criminalità organizzata. 

La “famiglia” malavitosa è tanto più potente quanto più alto è il capitale di violenza posseduto e nel gruppo la posizione occupata dalle donne non è di secondo piano, come avviene nelle strutture mafiose. Basterebbe ricordare i nomi di Pupetta Maresca e di Rosetta Cutolo per convincersene. La donne napoletane sono state oramai contaminate dalla modernità ed hanno dato un impulso decisivo alla dinamicità delle strutture familiari. Divorziano, hanno amanti, mettono gli uomini l’uno contro l’altro, prendono in mano le redini degli affari, quando i maschi sono costretti ad essere assenti dalla scena, perche carcerati o latitanti, o addirittura perché passati a miglior vita.
In questa galleria ideale di soggetti femminili Pupetta Maresca occupa una postazione particolare, come una sorta di spartiacque tra principi, valori e comportamenti femminili tradizionali e gli stessi ruoli visti in un'ottica più moderna, illuminati da un femminismo antifemminista. Pupetta è bella, giovane, coraggiosa e fedele alle tradizioni, che nella cultura meridionale vogliono la donna depositaria della vendetta, una implacabile vestale custode della famiglia, di cui tiene perennemente acceso il fuoco, anche, se necessario, col fuoco delle armi.
Pupetta interpreta però in senso moderno il codice della vendetta; non affida infatti il compito di santificarla agli uomini della famiglia, ma si fa giustizia da sola, affrontando in pieno giorno ed a viso scoperto il colpevole della morte del marito con la furia di una leonessa.         
La vicenda che la riguardò avvenne negli anni '50, all'epoca vi fu un grande risalto sulla stampa dell'episodio e tutti gli italiani furono straordinariamente impressionati, non solo per la personalità di Pupetta, ma anche per le modalità del delitto, che presentò tutti gli aspetti della tragedia sofoclea, inscindibilmente connessi sia alla modalità dell'assassinio, sia alla reazione istintiva dell'opinione pubblica, la quale ebbe grande comprensione e compassione, nel senso greco del termine, verso la protagonista.


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