9/11/2010
La napoletanità nella storia dell’arte
Il “Maggio dei monumenti” è stato per Napoli un’esperienza indimenticabile ed ha rinfocolato nei napoletani il gusto di percorrere in lungo e in largo la propria città, riappropriandosi delle memorie storiche sepolte in un antico palazzo, spesso sgarrupato, in una chiesetta dimenticata o in una stradina di cui nemmeno si sospettava l’esistenza. Si è trattato negli ultimi anni di edizioni in tono dimesso, in sintonia con una triste parabola discendente alla quale ci ha lentamente abituati la nostra amministrazione comunale, facendoci rimpiangere gli straordinari week-end di Monumenti porte aperte, ideati ed organizzati dalla benemerita baronessa Mirella Baracco, l’ultima vera regina di Napoli, ahimè da qualche tempo demotivata e distratta da orizzonti internazionali.
Finita la festa non è finita per fortuna la voglia di visitare la città e a tale scopo abbiamo predisposto una bussola che possa fare da guida e condurre per mano chi volesse conoscere angoli sconosciuti della città, spezzoni di storia e di arte, di folklore e di viva umanità.
Trascurando sculture ed affreschi, quadri ed affini, spostiamoci in tutt’altro ambito dedicandoci ad una struttura normalmente non aperta al pubblico, ma visitabile con un semplice permesso del direttore della cattedra di anatomia umana, persona gentilissima e pronta a soddisfare ogni esigenza. Si tratta del museo di anatomia, sito in via Armanni nella zona adiacente al vecchio policlinico e ricco di reperti umani interessantissimi, conservati in formalina, i quali, oltre a costituire materiale di consultazione per gli allievi della facoltà di Medicina e Chirurgia, risvegliano l’interesse e la curiosità anche di un pubblico profano, che è indotto ad una severa meditazione.
Ricordo l’emozione con la quale entrai per la prima volta, giovane studente, tra quelle sale sorde e grigie, accompagnato dal professore Gastone Lambertini, una leggenda della nostra facoltà. Rimasi particolarmente colpito al cospetto dello scheletro di un gigante e davanti ad un antico boccione, nel quale, immobili da tempo immemorabile e teneramente avvinti per l’eternità, giacevano due gemelli siamesi, uno scherzo della natura meno raro di quanto si pensi. Ritornato dopo decenni per accompagnare un gruppo di colleghi stranieri, ho provato lo stesso sbalordimento davanti a quei gemelli immutati dopo trenta e più anni, insensibili all’inesorabile trascorrere del tempo. Pochi passi tra cardini e decumani e ci troviamo nel centro geometrico della città, a piazzetta Nilo, detta anche Largo Corpo di Napoli, un toponimo rimasto invariato negli ultimi 2000 anni, un vero record.
Ai tempi della Napoli greco romana la città pullulava di forestieri e numerosi nativi del lontano Egitto(viaggiatori, mercanti e lavoratori) abitavano nella zona della piazzetta e nelle strade limitrofe, per cui vollero erigere una statua, che ricordasse loro la patria lontana e scelsero di raffigurare quello che per loro poco meno di una divinità: il fiume Nilo, il quale per l’occasione assunse le sembianze di un vecchio barbuto disteso seminudo su di un sasso, con il corno dell’abbondanza in una mano ed i piedi poggiati sulla testa di un coccodrillo.
La colonia egiziana andava d’amore e d’accordo con la popolazione indigena, una consuetudine che nei secoli è stata una regola per tanti gruppi di stranieri giunti in città per motivi di commercio o per lavoro ed il radunarsi attorno alla statua era semplicemente un modo per mitigare la malinconia, un po’ come gli oriundi italo americani di New York, fanno sorgere cappelle votive per il mitico San Gennaro.
In questi 20 secoli nonostante guerre, terremoti e devastazioni edilizie la statua è ancora lì, anche se ne ha passato di vicissitudini, come quando per molto tempo rimase senza testa, per via del vandalismo di un figlio di buona mamma, fino a quando le autorità non ne fornirono una nuova o quando addirittura e per decenni scomparve addirittura la statua inglobata nella costruzione di un monastero, per ricomparire nel 1476, come ci racconta Bartolomeo Capasso, quando le monache di S. Romita si trasferirono altrove e l’edificio che le ospitava fu abbattuto per fare posto alla nuova sede del Sedile del Nido.
Un salto di qualche chilometro ed eccoci in una chiesa di Materdei per descrivere uno dei più antichi riti pagani collegati alla fecondità, recepito e trasformato dalla religione cattolica. Si tratta del famoso “vaso ‘o pesce ‘e San Rafele”, che le ragazze da marito per secoli ed alcune ancora oggi praticano con la speranza di avere in futuro uno sposo fecondo. San Raffaele, come il suo collega San Michele è molto bello e viene rappresentato come un bellissimo erote della classicità etrusco campana, mentre regge nella mano il pesce, segno certo di fecondità, al quale si rivolgono speranzose le promesse spose napoletane, ripetendo un antico rituale.
Rechiamoci in periferia per l’ultima tappa, purtroppo virtuale, trattandosi di un luogo negato alla fruizione del pubblico, anche se di grande interesse. Siamo ora a Barra, a villa Bisignano, ex Roomer, dove è conservato uno spettacolare ciclo di affreschi di Aniello Falcone, sconosciuto agli stessi specialisti.
Tale villa, oggi proprietà comunale, ospita una scuola, il cui preside ci ha cortesemente informato che un’ala dell’edificio, ove si trovano le preziose decorazioni, è stata occupata da quattro - cinque famiglie. In particolare una di queste, di nome Storti (mai nome fu più adatto) si è impossessata dei locali ove sono conservati gli affreschi e respinge sdegnosamente e vigorosamente qualsiasi visitatore, inclusi i professori della scuola, uno dei quali, mi ha informato che nell’abitazione coabitano numerosi piccioni e che sull’elegante porticato adiacente sono state erette abusivamente delle verande. Uno scandalo macroscopico che grida vendetta, possibile solo a Napoli, paradiso abitato da diavoli. Della triste vicenda avevo informato, sfruttando una personale amicizia, il sottosegretario Sgarbi, il quale aveva promesso il suo immediato intervento. Purtroppo dopo due giorni, per le note vicende politiche, l’onorevole decadde dall’incarico, per cui non restò che indirizzare il nostro accorato grido di dolore al sovrintendente professor Nicola Spinosa, di cui è noto l’attaccamento ai beni consegnati alla sua tutela, ma soprattutto è proverbiale la focosa grinta con la quale sa difenderli, per cui si poteva attendere fiduciosi.
Purtroppo neanche lui, nonostante sia riuscito ad organizzare decine di mitiche mostre, che hanno portato alto il nome di Napoli in tutto il mondo, è riuscito a far sloggiare l’occupante abusivo.
Non resta che sperare nell’intervento della Procura della Repubblica o forse dovremmo rivolgerci a qualche guappo di buona volontà.
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