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giovedì 5 aprile 2012

Napoli nelle pagine degli scrittori


8/3/2011

La letteratura da sempre ha denunciato il degrado della città e le miserevoli condizioni dei suoi abitanti, in maniera ancor più efficace delle arti figurative, che pure hanno raggiunto dei vertici assoluti, dalle Sette opere di Misericordia di Caravaggio, nella quale Napoli è descritta come un dedalo inestricabile di vicoli pericolosi, frequentati da ceffi patibolari e sguaiate meretrici, alle precise documentazioni dal vivo di Micco Spadaro, preciso illustratore di eventi tumultuosi: peste, rivolte e catastrofi naturali.
Già il Boccaccio, vissuto a Napoli, dove conobbe ed amò la sua Fiammetta, nella novella del Decamerone di Andreuccio da Perugia, rappresenta una città senza mare e senza sole, in balia di prepotenti e malfattori. 
Nell’Ottocento, senza attendere il verismo, scrittori e giornalisti, continueranno, in omaggio alla verità a delineare con puntigliosa precisione il ritratto di una città omertosa e delinquenziale, afflitta da povertà ed ignoranza e popolata dalla concentrazione di plebe più alta del mondo occidentale.
I Vermi di Mastriani, ma soprattutto il Ventre di Napoli della Serao denunciano la miseria diffusa che per secoli il ceto politico dominante ha inteso nascondere, la faccia oscura ed impresentabile di un’antica capitale decaduta al ruolo di provincia. 
La città in questi scritti mostra il suo volto oscuro, di una divisione netta tra l’aristocrazia ed il ceto medio ed il popolo dei lazzari e degli scugnizzi, le belle strade di rappresentanza alle quali si contrappongono i vicoli sudici e maleodoranti, i superbi palazzi e le residenze di lusso, mentre gran parte della popolazione è costretta a vivere in squallidi tuguri.
Una Napoli esaltata dai viaggiatori del Gran Tour per le sue bellezze naturali ed i suoi tesori artistici, per il clima salubre, mentre i cittadini indigenti, che sono la maggioranza, obbligati a sopravvivere in bassi dove il sole così celebrato non riesce ad arrivare e dominano incontrastati il rachitismo ed il colera.
Il libro della Serao è una serrata indagine giornalistica, ma ha la forza impetuosa del romanzo, rappresenta una denuncia severa e particolareggiata, ma anche un atto di amore infinito.
Vi furono dei risultati, anche se non risolutivi. Furono abbattuti i fondachi più tetri, caddero sotto i colpi del piccone le case inabitabili, scomparvero interi quartieri malsani, come il Malpertugio che risaliva agli angioini, Mezzocannone fu tagliata, assieme a palazzi storici, spostati o affettati. 
Fu sviluppata una rete fognaria moderna e l’acqua giunse in quasi tutte le case, furono costruite grandi arterie che cambiarono il volto della città.
L’Italia non seppe però affrontare e risolvere atavici problemi ed ecco di nuovo un libro di accorata denuncia, il più spietato: La pelle di Curzio Malaparte, un romanzo che offre un ritratto spietato del degrado umano, più che materiale, della napoletanità ridotta a brandelli con la prostituzione ubiquitaria e la sconfitta di un popolo che si vende al miglior offerente, con i corpi dei suoi figli concessi per un pugno di dollari alle turpi voglie dei vincitori. 
Un libro dalla prosa barocca e magniloquente intriso di una ferocia beluina nel descrivere con furia dantesca un rassegnato paradiso abitato da diavoli, che fotografa una grande metropoli, la quale dopo aver perso la guerra ha dissipato scriteriatamente anche la pace. 

L’antica Partenope, costantemente sedotta e tradita, sottomessa, ma che ha sempre saputo ammaliare il vincitore, cade in un abisso di dissolutezza, in una vertigine di perdizione, dalla quale faticherà a sollevarsi. 
Una girandola di episodi sospesi tra una realtà che sfida la più accesa fantasia, inseguendo la verità, un racconto scomodo intriso di ribrezzo e poesia, rabbia ed anelito di libertà, furore dei sensi e disperata ricerca di spiritualità. Un dettato orgiastico per narrare a tutti il sommo dolore e la sopita voglia di un domani migliore.
Il consiglio comunale di Napoli, inorridito, nel 1950, censurò pubblicamente Malaparte, il Santo Uffizio lo mise all’indice tra le opere immorali, la critica si divise nel giudicarlo. 
Pochi percepirono la scintilla che lo pervadeva, l’indicazione di una strada impervia per ricercare un senso morale della vita, un’esaltazione di un popolo martoriato nei giorni più bui della sofferenza, una sofferenza che ci è rimasta appiccicata sulla pelle.
Da allora comincia il compito degli scrittori per salvare Napoli, la letteratura esprime una funzione di supplenza sostituendosi alla politica ed alla stessa società civile, che da tempo ha abdicato ad ogni funzione e si è consegnata alla camorra ed al malaffare.
I mali arcaici, trasformati ed ingigantitisi nel tempo, continuano a manifestarsi nel corpo malato della città a guisa di purulente metastasi, a confermarci che la notte edoardiana non è ancora passata e brancoliamo ancora nello smarrimento delle coscienze.
Ci saranno ancora altri scrittori, che con foga lanceranno inascoltati il loro grido di dolore. 
Anna Maria Ortese con il suo Il mare non bagna Napoli, La Capria con Ferito a morte, Ermanno Rea con Mistero napoletano, fino al romanzo saggio di Roberto Saviano, il quale con Gomorra compone un affresco corale della camorra divenuta Sistema e dopo aver conquistato il commercio internazionale della droga nella latitanza assoluta dello Stato, ha preso possesso delle anime, ha ipotecato il futuro dei giovani ed umiliato ogni residua speranza di riscatto civile.
La fame atavica non è più quella degli abitanti dei bassi nei secoli precedenti, ma è un desiderio sfrenato di beni materiali, che coinvolge tutti coloro che vivono da sempre nel vuoto morale e nell’ignoranza e considerano un solo dio: il moloch denaro come misura di tutte le cose.
Napoli affonda sempre più e si fatica a vedere un barlume di luce oltre le tenebre. 

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