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giovedì 5 aprile 2012

Il dolore è necessario?


30/3/2011

Oggi sono dieci anni dalla data in cui presso l’Istituto degli studi filosofici di Napoli organizzai, con la partecipazione di filosofi, teologi, medici, letterati e psicanalisti un convegno su un tema che prima o poi tocca ogni essere umano: il dolore. 
L’argomento purtroppo conserva ancora immutata la sua attualità ed essendo la mia relazione oramai perduta tra le carte congressuali voglio riproporla ai lettori.

Dal palcoscenico dei sensi al teatro delle emozioni
Gentili signore e signori,
il convegno di questo pomeriggio: Perché il dolore? Una risposta tra scienza, fede e filosofia, tratta un argomento che riguarda tutti i presenti indistintamente, perché il dolore è un penoso fardello che accompagna la vita di ognuno di noi, dal primo pianto del bambino appena venuto alla luce all’agonia del vecchio che muore tra strazi crudeli e lunghi patimenti.
Il dolore di cui ci occuperemo oggi è il dolore fisico, mentre lasceremo fuori dalle nostre argomentazioni quella particolare forma di cordoglio, carica di sentimenti tetri ed angoscianti, che potremmo definire dolore morale o psichico.
Il dolore veglia come un oscuro fantasma su ogni passo della nostra esistenza, sempre pronto a colpire, inafferrabile come l’aria, ubiquitario quanto implacabile; esso entra all’improvviso prepotentemente nella nostra vita, spaventando i deboli ed aizzando ad inutili ed impari lotte i forti. 
Problema ancora insoluto per lo scienziato, quesito tormentoso per il filosofo, consigliere mendace di pietà per il credente. 
Il fisiologo ne cerca le origini, il medico ne placa i sintomi, il giurista ed il teologo lo erigono a fustigatore della colpa, il filosofo lo insegue senza mai raggiungerlo: tutti lo temono e cercano di combatterlo o di esorcizzarlo.
Oggi tutti insieme proveremo a meditare sul perché della sua esistenza e cercheremo una risposta con l’aiuto di un prestigioso parterre di relatori, dal medico al filosofo, dall’antropologo al teologo, dallo psicanalista al letterato, i quali ci condurranno con le loro relazioni tra le sabbie mobili di una problematica aperta alle più disparate interpretazioni.
Il dolore è un nemico invisibile che ci sovrasta e spesso ci devasta, senza che noi riusciamo nemmeno a descriverlo adeguatamente, infatti sulla sofferenza fisica sono state coniate nei secoli centinaia se non migliaia di definizioni, nessuna delle quali ci soddisfa completamente. 
Anche senza definire compiutamente il dolore, le sue stesse caratteristiche e sfumature hanno avuto più codificazioni nel corso dei secoli, Hahnemann, uno studioso di algologia, ne riuscì a distinguere ben 73 specie. 
Esso può essere infatti: “Bruciante, contundente, conquassante, corrosivo, gravativo, lacerante, lancinante, pungente, pulsante, pruriginoso, strappante, terebrante, ecc.”, ma considerare, sic et sempliciter, le sensazioni dolorose come un treno d’impulsi lungo le vie nervose, transcodificate qua e là in mediatori chimici sarebbe troppo riduttivo, perché la percezione del dolore è squisitamente personale e la sua esperienza deve fare i conti non solo con la biologia, ma anche e soprattutto con la cultura.
Le ricerche antropologiche hanno dimostrato che sono diverse le risposte agli stessi stimoli da parte di popolazioni culturalmente lontane, come pure bisogna meditare sulla circostanza che il dolore acuto, nelle sue fasi più esacerbanti, sfugge ad ogni definizione e ad una accurata descrizione, perché ci fa precipitare in un abisso, in uno stato antecedente al linguaggio, degradandoci alle urla e ai gemiti che un essere umano emette in maniera disarticolata prima di apprendere le stesse parole e facendoci retrocedere allo stato di primati appena scesi dagli alberi nel lontano Pleistocene.
Il laico oggi riconosce il dolore come male e cerca di evitarlo, nello stesso tempo abbassa vistosamente e senza accorgersene la soglia di percezione, in una società in cui l’edonismo è regola di vita. 
L’uomo della pietra o il gladiatore tolleravano meglio di noi le sofferenze, perché per loro il dolore non era un vero nemico.
Anche oggi per il credente il dolore può avere una valenza positiva, infatti in un recente convegno, tenutosi all’Università Lateranense, un cardinale ha candidamente dichiarato:” La morte è la fine di tutto, ma è anche l’inizio di una dimensione nuova, nella cui prospettiva anche la sofferenza ha un senso”. 
Lo stesso senso che potevano avere il cilicio e l’autoflagellazione? 
Chi ha il conforto della fede può accontentarsi di una risposta del genere, ma per il non credente è triste la constatazione che il dolore fisico più aggressivo spoglia le persone da quella dignità che tutti diciamo di voler tutelare e ci abbassa allo stadio di animali feriti nel selvaggio stato di natura.
Alla domanda che questo pomeriggio ci poniamo, tutte le filosofie e le religioni hanno tentato in passato di abbozzare una risposta, cercando ora in terra ora in cielo le ragioni del dolore. 
Per i credenti è un castigo di Dio, un pietoso avvertimento della Provvidenza o un motivo di salvezza, per i pessimisti è la prova eloquente che la natura è governata da un principio malefico, che trasforma lo stesso piacere unicamente in una momentanea cessazione del dolore. 
Altri che a lungo hanno discettato sull’argomento, senza conoscere nulla del nostro sistema nervoso centrale, pensano che le frontiere del dolore si sovrappongano a quelle della sensibilità e che le sofferenze siano più pregnanti quanto più la sensibilità sia intensa, mentre, viceversa, la percezione sia più modesta quanto più ci allontaniamo dall’uomo per scendere agli antropomorfi, ai quadrupedi, agli uccelli, ai rettili, ai pesci. 
Ed a questa legge attribuiscono un valore cosmico, ritenendo che se in altri mondi vivessero creature dotate di sensibilità, anche queste inevitabilmente sarebbero costrette al patimento.
A conclusione del dibattito vogliamo fissare alcuni punti fermi ed avanzare alcune ipotesi alle seguenti angosciose domande: può essere il dolore un errore della natura e può la natura sbagliare? 
La sua essenza ed il suo significato ci sfuggiranno sempre, come tutte le cause prime o riusciremo a darci una risposta accettabile?
Da quando l’uomo ha individuato nel dolore un suo acerrimo nemico la medicina ha cominciato ad ingaggiare con esso un’implacabile battaglia, che dovrà cessare solo con una completa vittoria, quando la sofferenza sarà cancellata per sempre e relegata come mostruosità nei libri di storia della medicina. 
In attesa di questo fatidico giorno vorrei proporre alla meditazione generale non una teoria, ma una semplice ipotesi di lavoro.
Il dolore acuto di una scottatura o di una puntura, il quale bruscamente ci segnala un pericolo, facendoci scostare, possiede una finalità facilmente intuibile ed un’utilità altrettanto evidente, che può trovarci tutti d’accordo. 
Infatti i pochi soggetti, ne sono stati segnalati fin ora un centinaio di casi, che per un’anomalia genetica sono affetti da un’insensibilità congenita al dolore, incorrono in una interminabile serie di infortuni e presentano costantemente il corpo pieno di lividi e cicatrici.
Viceversa il dolore esacerbante ed apparentemente afinalistico che accompagna le grandi patologie croniche, in primis i tumori, non sembra essere di alcuna utilità, particolarmente quando, dopo anni di lunghe sofferenze, termina con la morte del paziente. 
Questo dolore costante mette però in moto con perentorietà tutta una serie di meccanismi difensivi, che solo in parte conosciamo, che vanno da un’attivazione del sistema immunitario ad un risveglio del sistema neuro endocrino, a chissà quanti altri sofisticati meccanismi dei quali nulla sappiamo.
La sirena potente del dolore, come un urlo in uno stadio che, sovrastando le altre voci, voglia raggiungere un ascoltatore lontano, rappresenta un comandamento che fa da segnale a numerosi meccanismi difensivi. 
Nello stesso tempo entrano in circolo le endorfine ed altri mediatori chimici che contrastano la sensazione dolorosa, anche se in maniera palesemente insufficiente, forse perché la soglia di percezione del dolore si è abbassata, per motivi che possiamo solo ipotizzare: sovrastrutture culturali o momentanei assestamenti evolutivi.
Con l’auspicio che le parole dette oggi siano di stimolo per tutti a meditare sull’argomento, ringrazio l’Istituto Italiano per gli studi filosofici, i relatori ed il gentile pubblico che ha avuto la pazienza di ascoltarci fino alla fine.

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