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mercoledì 4 aprile 2012

Dalla peste al colera


4/1/2011


La napoletanità nella storia dell’arte

La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie del diffondersi nella città di Napoli di disastrose epidemie, che talune volte hanno falciato quote cospicue della popolazione.
Tra queste il colera sembra essere divenuto quasi endemico; esplode sempre d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature raggiungono i loro picchi annuali e colpisce per primi gli abitanti dei bassi, dove le precarie condizioni di vita favoriscono la diffusione del contagio.
Lungo i secoli bui del Medioevo le epidemie si susseguivano e si sovrapponevano procurando migliaia di decessi: difterite, tifo, malaria, vaiolo, epatite e salmonellosi hanno imperversato a lungo in città ed in provincia.
Tra le epidemie più disastrose bisogna ricordare quella di peste del 1191, durante l’assedio di Enrico lo Svevo con migliaia di morti, anche se la vera peste fu quella del 1656, che dimezzò la popolazione, spazzando via un’intera generazione di pittori, mentre i pochi superstiti ne hanno immortalato scene indimenticabili, come Micco Spadaro, che ci ha fornito un’immagine grandiosa dell’odierna piazza Dante con una marea di moribondi, mentre squadre di monatti compivano il loro triste ufficio o Carlo Coppola che inquadra gli avvenimenti della grande piazza del Mercato e Luca Giordano il quale ci mostra San Gennaro nel pieno della sua attività di protettore della città e nel basso della composizione ci restituisce il particolare straziante di un bambinello abbandonato al suo destino dalla madre morta, che cerca disperatamente nutrimento nelle mammelle di una puerpera da poco spirata. E concludiamo con Mattia Preti che ebbe l’incarico di eseguire sulle porte della città dei giganteschi ex voto di ringraziamento per la cessazione del morbo.

Anche il Settecento fu triste sotto il profilo delle epidemie e nell’Ottocento, dopo l’Unità d’Italia, in poco più di venti anni Napoli venne colpita ben cinque volte dal colera, pagando nel 1865 un tributo di oltre 6000 vittime alla furia del morbo ed ancora di più l’anno successivo, fino a quando, dopo l’ulteriore disastrosa epidemia del 1884, si raccolse l’urlo disperato della Serao:”Bisogna sventrare Napoli” e si diede mano alla colossale opera del Risanamento, ridisegnando interi quartieri.
Del persistere delle epidemie molti abitanti davano la colpa ai nuovi amministratori al punto che in alcuni ospedali circolava il demenziale ritornello: “Si vulite ca cacammo tuosto, Datece ‘o Rre Nuosto”.
Il colera ha infuriato incontrastato per decenni, complice il degrado in cui versava gran parte della città antica, servita da un acquedotto, che chiamare vergognoso significava fargli un complimento, perché in molti punti era inquinato dai liquami fognari. Anzi in quasi tutti i bassi si utilizzava per bere e per cucinare l’acqua di un pozzo, che “fraternizzava” con gli escrementi che scolavano verso la cloaca da un orribile buco, il quale fungeva in ogni abitazione da cesso, permettendo il passaggio verso il basso e l’esterno di feci ed urine e verso l’alto e l’interno di topi e zoccole, da cui la necessaria presenza in ogni basso di una colonia di gatti, che cercava disperatamente di opporsi al proliferare dei ratti.

Il periodico presentarsi delle epidemie di colera provocava numerosi decessi, per cui fu necessario realizzare nel 1836 un cimitero dedicato unicamente ai trapassati per via del morbo. Anzi ad essere più precisi ne vennero creati due, perché al primo accedevano prevalentemente gli appartenenti alle famiglie illustri della città, mentre al secondo, un sepolcreto costruito nel 1837 vicino al cimitero delle 366 fosse, il popolino, che altrimenti sarebbe finito nelle fosse comuni dell’attiguo cimitero realizzato dal Fuga per trovare un’eterna dimora ai senza dimora ospitati nell’Albergo dei poveri.
E qui si apre un’altra dolorosa ferita nella conservazione della memoria della città, perché il cimitero, per quanto conservi le spoglie del gotha dell’aristocrazia napoletana, a partire dai Caracciolo e dai Carafa ed un profluvio di epigrafi che ci raccontano, con accenti commossi, storie di amore e di sofferenza, versa in uno stato di abbandono deplorevole, con i monumenti funebri avvolti da un’inestricabile boscaglia che umilia questa prodigiosa Spoon River partenopea.

Avventurarsi tra il fogliame e leggere le parole incise sul marmo, dettate da questi alto borghesi ed aristocratici, colpiti negli affetti più cari, ci restituisce il senso di un’immane tragedia che ha più volte colpito la popolazione e ritornano attuali le malinconiche intimità di una classe sociale spazzata via dalla modernità e che pagò, nonostante l’epidemia colpisse prevalentemente la plebe, un pesante tributo alla furia del contagio.
Non sarebbe macabro organizzare per forestieri ed indigeni delle visite guidate a questi luoghi dell’arte e della pietà, della meditazione e della preghiera, che costituiscono una fondamentale pagina di storia della città.
Ed una tristezza sconfortante coglierebbe il visitatore vedere le stradine, invase dalle piante e le palme divorate dal punteruolo rosso che guardano malinconiche i grattacieli svettanti del centro direzionale, mentre tutto attorno si estende una distesa di tombe dimenticate, di monumenti divelti e profanati da ladri sacrileghi e le infinite lapidi che ci ammoniscono sulla caducità della vita. 


Durante il fascismo stranamente non vi furono epidemie, ma mentre infuriava la guerra, nel 1943, scoppiò di nuovo la peste, portata dalle truppe americane, le quali rimanevano immuni dal contagio. Sono i giorni tristi in cui capeggiavano le scritte sulle mura:”Off limits” o “Out of bonds”, che perentoriamente consigliavano ai militari in cerca di puttane di stare alla larga da alcuni quartieri dove il morbo si manifestava con maggiore virulenza.
Ed infine l’ultimo capitolo di questo dramma infinito si è avuto nel 1973, quando il vibrione del colera, complice la scellerata abitudine di consumare mitili non cotti, prelevati dal mare cittadino, ridotto da tempo ad una penosa cloaca a cielo aperto, ha di nuovo dilagato in città e provincia chiedendo il suo implacabile pedaggio di vittime.
E purtroppo in questa occasione i mass media hanno dilatato per tutto il globo l’immagine di una città perduta, condannata ed irrecuperabile, per via anche dei suoi abitanti più rozzi, immortalati dalle telecamere mentre si pascevano scriteriatamente di cozze appena prelevate dagli scogli puteolenti di via Caracciolo.
Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e proprio tumulto scoppiato nel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per accaparrarsi il vaccino dal quale  fui travolto assieme ai colleghi medici e mi salvai unicamente perché iniettammo soluzione fisiologica una volta finite le dosi o la delusione patita di vedere al mio matrimonio, celebrato a settembre col morbo da poco terminato, disertato dalla totalità degli invitati non napoletani spaventati e perfino da un mio zio residente a Roma, che doveva fungere da compare d’anello. 
Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare Napoli ad una città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori ed amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a regolare la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la sproporzione tra numero degli abitanti e superficie a disposizione, per cui una quota significativa della popolazione è costretta a sopravvivere in condizioni precarie, sia che occupi degli squallidi bassi nei vicoli senza luce del centro antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a Secondigliano.
Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a privilegiare le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione del Risanamento, che seguì all’ennesima epidemia del 1884, la quale provocò nel solo capoluogo 7000 vittime del colera. Anche allora, come si è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di ogni risma, politici corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamento per sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha addirittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile, autorizzata ad agire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.

Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione del Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi. Prese forma il Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli, ma non si costruirono come promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu costretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto, dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare entrò in fibrillazione con aumenti vertiginosi dei prezzi  e guadagni stratosferici per i soliti speculatori, tra i quali si distinse il piemontese Glisser, che realizzò una fortuna tra appalti e subappalti.
Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione, che mise in luce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non riuscì a condannare nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi risultati, per cui non ci resta che attendere la prossima epidemia, nel frattempo ci dobbiamo contentare di una diffusione di epatite virale che non ha eguali nel mondo occidentale.

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