14/7/2011
Maestro di scacchi, pizzaiolo, ma soprattutto autore di successo
Nel panorama degli scrittori campani Andrej Longo occupa una posizione defilata: non ama apparire, non partecipa a dibattiti, non frequenta i colleghi, non si spaccia per intellettuale, nessun giornalista lo interroga sul presente e sul futuro di Napoli.
Un libro all’anno, un editore autorevole, Adelphi ed il successo che si ripete puntuale.
In passato gli editori lo presentavano come pizzaiolo, faceva chic, dimenticando la laurea al Dams e tanti anni di collaborazione con la Rai.
Per la sua ultima fatica letteraria Andrej ha ideato una furbata. Per Lu campo di girasoli alla lingua tradizionale ha sovrapposto una parlata meridionale, scorrevole ed accattivante, in grado di mescolare lingua e vernacoli, storie ed emozioni e produrre un melting pot di struggente suggestione, che ambisce a divenire un nuovo esperanto.
Una scelta coraggiosa, ma in parte già praticata in Dieci, una raccolta di racconti di qualche anno fa, dove il napoletano dominava con aurea dignità ed animava la narrazione.
La critica più avvertita ha richiamato i celebri esempi del Finnegam Wake di Joyce e l’Horcinus orca di D’Arrigo, ma si tratta naturalmente di esagerazioni senza senso, che solo recensori prezzolati e adulatori possono immaginare.
Nel nuovo lavoro l’invenzione di una vera e propria lingua esercita un ruolo più incalzante ed avvince il lettore, che si appassiona alla storia dell’amore contrastato dei due poveri giovani, Caterina e Lorenzo, sui quali incombe la protervia di Rancio Fellone, il quale, aiutato da due complici, vuole possedere la bella fanciulla il giorno della festa di San Vito, quando tutta la folla si eccita e si sfrena nei gorghi della tammurriata.
Molti altri personaggi intrecciano le loro storie nella narrazione, che scorre veloce tra le amenità della fiaba e lo squallore della cronaca nera, intessuto di passioni primordiali e di riti arcaici.
L’antica amicizia e la comune predilezione per il nobile gioco degli scacchi ha permesso un’esclusiva intervista con l’autore durante una memorabile sfida sulle 64 caselle.
Come ti è venuta l’idea della lingua vernacolare?
Durante un sogno ho avuto la folgorazione, mi sono svegliato ed ho cominciato a prendere appunti, mescolando il napoletano al pugliese,il dialetto di mio padre al siciliano che tanto amo.
Come pensi che risponderanno i lettori della Padania a questo coacervo di parlate meridionali?
Non mi sono posto il problema, ho seguito unicamente la mia ispirazione.
La figura di Rancio Fellone con i suoi bravi mi rammenta più che i Promessi Sposi il night che Altafini aprì ad Ischia negli anni Sessanta.
Hai ragione, ero bambino e non potevo entrare in quel locale, nel quale entravano tutti i miei amici più grandi ad abbordare le turiste del Nord.
Nel romanzo mi è parso di percepire che i protagonisti, tutti senza esclusione, non vogliono arrendersi al fato che nel Sud sovraintende a tutti gli avvenimenti.
Bravo hai colto un aspetto fondamentale del libro che nessuno dei recensori aveva fino ad oggi sottolineato.
Pensi di ripetere questo esperimento linguistico anche in futuro?
Non faccio previsioni, ora con questo caldo, finito un ciclo di presentazioni, non vedo l’ora di bagnarmi nelle acque del mare di Ischia.
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