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venerdì 30 marzo 2012

Pittori del SEICENTO napoletano

9/11/2009

La venuta a Napoli di Caravaggio

Chi volesse conoscere i massimi esempi della pittura napoletana sul far del Seicento dovrebbe, entrando nella grandiosa chiesa di S. Maria la Nova, alzare gli occhi ed ammirare lo splendido soffitto cassettonato, che da solo costituisce una meravigliosa pinacoteca di quasi cinquanta dipinti, nel quale furono impegnati i più importanti artisti napoletani del periodo, che avevano raggiunto la piena maturità ed avevano già dato prova esauriente della loro capacità nelle altre chiese napoletane, da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez. Questo straordinario soffitto costituisce una esaustiva antologia delle correnti pittoriche che dominavano in città ad inizio secolo, dalla maniera dolce e pastosa del Curia alla cosiddetta riforma toscana importata dal Santafede, in tutte le possibili declinazioni.
Il secolo d’oro della pittura napoletana, che tanto riverbero avrà sull’intera civiltà artistica europea, nasce così sotto il segno di artisti che seguono la maniera più ritardataria e provinciale, con una stanca parlata comune, quasi del tutto priva di voci dominanti, quando, come per incanto, nel primo decennio con un’apparizione improvvisa compare e scompare due volte dalla scena Michelangelo Merisi da Caravaggio. La sua presenza farà da catalizzatore delle energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la “Napoli sacra”, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargano e si innovano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
Generalmente il  Seicento napoletano in pittura viene preso in considerazione a partire dal 1606, anno del primo soggiorno in città del Caravaggio e lo si fa terminare nel 1705 con la morte di Luca Giordano. Noi viceversa ci atterremo strettamente agli anni di inizio e fine secolo dal 1600 al 1699. Questo severo criterio cronologico ci induce a trattare, anche se brevemente, di tutti quegli artisti e non sono pochi, che, figli del Cinquecento ed insensibili alla nuova cultura caravaggesca, pur continuarono a lavorare, alcuni intensamente, fino alla metà del secolo.
La grande mostra, tenutasi a Napoli nel 1984 sulla Civiltà del Seicento, trascurò completamente questa generazione di artisti e così fanno anche molti testi pur autorevoli di storia dell’arte; ma non si può certo lasciare senza attenzione l’opera di tanti artisti che, richiesti da una folta committenza pubblica e privata, a carattere devozionale, continuarono, tra il decorativo e l’illustrativo, la loro opera talune volte inscurendo unicamente la tavolozza per adeguarsi, anche se superficialmente, alla nuova moda. 
Fra le correnti artistiche cinquecentesche che protrudono nel secolo successivo sono da annoverare la linea della pittura dolce che, ispirata dalla maniera di Zuccari e Barocci ha tra i suoi protagonisti Francesco Curia e Girolamo Imparato, scomparsi contemporaneamente alla venuta del Caravaggio ed il fiammingo napoletanizzato Dirk Hendricksz, il quale, poco concedendo in variazione al suo stile, lavora fino a circa il 1615. Con questi autori dobbiamo ricordare anche Giovan Antonio D’Amato, figlio di Giovan Angelo che proseguirà la bottega paterna fino al 1643.
Francesco Curia è il più abile tra i tardo manieristi napoletani, figlio d’arte è nella bottega del padre Michele dal 1588 al 1594. Entro il secolo realizza numerose ed importanti opere per evolvere poi, sotto la spinta degli esempi degli artisti fiamminghi presenti in città, sostenitori della maniera tenera, verso una forma elegante e mossa, che farà di lui il campione indiscusso di una pittura fresca e dal forte impatto emozionale, bizzarra e surreale, visionaria e fantastica. La sua pennellata morbida e densa, quasi lanosa dà un’impressione tattile sulla superficie pittorica.
A partire dal 1600 numerosi documenti di pagamento testimoniano della sua fama oramai consolidata. Nel 1601 esegue la Madonna del Rosario di Prepezzano oggi nel museo diocesano di Salerno, nel 1603 replica l’analogo soggetto per la parrocchiale di Orta di Atella  e da questi dipinti Giuseppe Marullo ed altri stanzioneschi preleveranno gli angioletti che svolazzano in alto nella composizione.
Il 1602 è la data della sua celebre Gloria del nome della Vergine incastonata nel cassettonato di Santa Maria la Nova, animata da uno sfrenato dinamismo con l’angelo che sembra volare al di fuori della composizione. Intorno al 1605 è collocabile il Battesimo di Cristo nella cappella Brancacci del Duomo, un dipinto nel quale le pose fisse dei protagonisti trasportano in una dimensione irreale e rappresentano l’ultimo guizzo di genio dello svagato pittore.
Girolamo Imparato inizia la sua carriera nella bottega di Silvestro Buono come mero pittore devozionale intorno al 1570, per collaborare poi in seguito con Giovannangelo D’Amato, con Dirk Hendricksz nel cassettonato di Donnaromita e con alcuni artisti del cantiere della Certosa di San Martino. Egli nel suo lungo percorso fino alle soglie del Seicento mostra una chiara evoluzione da una cultura di marca fiamminga piena di cangiatismi ad una pittura tenera di matrice baroccesca.
Giunto alle soglie del secolo d’oro contribuirà con un ultimo sprazzo estroso e visionario all’ultima stagione della pittura tardo manierista prima della rivoluzione caravaggesca, dando luogo a composizioni luminescenti e turbinose spesso arricchite da panneggi  che sembrano una seta rigida quanto leggera.
Tra le sue opere seicentesche rammentiamo il Sant’Ignazio in estasi (1601) e la Natività (1602-03) realizzati per il Gesù Nuovo, l’Annunciazione e l’Assunta, firmata e datata 1603, per il cassettonato di Santa Maria la Nova, oltre a tre quadri eseguiti per gli altarini laterali, la Circoncisione, documentata al 1606, del museo del Banco di Napoli ed infine, nel 1607, il Martirio di San Pietro da Verona, consegnato poco prima della morte, per l’altar maggiore della chiesa di San Pietro Martire.
Dirk Hendricksz, conosciuto anche come Teodoro D’Errico, è documentato a Napoli dal 1574 al 1608 ed è il principale esponente della colonia fiamminga in città, ideatore di una pittura tenera dal ricco impasto cromatico, che raggiungerà il culmine del successo nei due celebri cassettonati di San Gregorio Armeno prima e di Donnaromita poi. Sono vaste composizioni che, alla ricercatezza del colore, associano uno stile pittorico di pretta marca barroccesca.
I pittori nordici erano specializzati in pitture di paesi e nelle vedute, in quadri di genere come le stagioni, le stregonerie o le cacce ed erano abilissimi a dipingere sul rame con colori fini, vivaci ed allegri.
Al di fuori dei loro settori preferiti erano spesso destinatari di importanti committenze da parte di chiese ed ordini religiosi.
Al virare del secolo la sua maniera si avvale di una materia sempre più fluida ed impastata ed il suo stile da leggero, fantasioso e sfarfalleggiante diviene più calibrato e più serio. La sua attività è scandita da poche opere certe, mentre si incrementa la collaborazione col figlio Giovan Luca.
Tre opere seicentesche sono certamente documentate e sono il Miracolo di Cristo di Arienzo, la Madonna del Carmine di Santa Maria la Nova e la Santa Caterina dell’Annunziata oggi nel museo civico a Castel Nuovo, alle quali aggiungere la Crocefissione in Santa Maria del Parto e la Visitazione già in San Marco ai Lanzieri. Sono dipinti segnati da uno stile espressivo e patetico non senza qualche piccola caduta formale. Nel maggio del 1610 il pittore, dopo la morte prematura del figlio, decide di ritornare in patria ad Amsterdam, dove concluderà stancamente una carriera che per oltre quaranta anni lo ha visto tra i principali protagonisti del tardo manierismo nell’Italia meridionale.
Un nordico di cui poco conosciamo, ma che ci ha lasciato alcune opere significative all’inizio del secolo è Pietro Torres, un pittore membro della numerosa colonia fiamminga che, dopo la fatidica notte di San Bartolomeo del 1572, emigrò in Italia e soprattutto nel viceregno. Egli collaborò prima con Smet per avvicinarsi in seguito allo stile del Cobergher. Un artista modesto ma bizzarro ed interessante oscillante tra le espressioni del manierismo e la pittura schiettamente devozionale.
Notevoli e da collocare ad inizio secolo due tavole caratterizzate da accesi cangiatismi mirabilmente coniugati a tenere espressioni nei volti: una Immacolata Concezione ed angeli conservata presso la Curia arcivescovile  ed una Madonna delle Grazie coi santi patroni di Napoli già nella chiesa di Gesù e Maria.
Nell’ambito della pittura di paesaggio occupano un posto di rilievo altri  due nordici: Paolo Bril, il quale nei primi anni del Seicento esegue un importante ciclo di affreschi nel chiostro della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli., mentre a Loise Croys,  maestro di Carlo Sellitto, vengono oggi assegnati quelli nel pronao della chiesa di Santa Maria Regina Coeli. Con il loro esempio e con modalità eleganti e raffinate nasce una nuova concezione del paesaggio in area meridionale; non più luogo di ambientazione bensì parte centrale della composizione. A questi testi si ispireranno Domenico Gargiulo, Salvator Rosa e lo stesso Battistello Caracciolo, che saranno i fondatori della pittura di paesaggio napoletana. 


Giovanni Antonio D’Amato nasce come pittore devozionale, ma per una parte del suo percorso artistico sarà attirato dal naturalismo dei primi caravaggeschi napoletani, a tal punto da confondersi a loro in alcune opere come nel Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia della collezione Pellegrini a Cosenza, attribuito in passato a Beltrano o a Vitale. I suoi quadri naturalisti sono però sempre intrisi da una garbata punta di devozione familiare e dal dolce impasto cromatico proprio delle sue origini baroccesche.
Ad inizio secolo sono collocabili la Vergine Lauretana della chiesa di Santa Maria del Popolo agli Incurabili e la Visione di San Romualdo sulla volta del coro dell’Eremo dei Camaldoli. In anni successivi realizza il caravaggesco Santi Nicola, Domenico e Gennaro, oggi nel museo civico. Celebri alcune sue opere conservate nella quadreria dei Gerolamini: la Deposizione e la Sacra Famiglia, un soggetto che replicherà in una tela già nella chiesa delle Crocelle ai Mannesi ed oggi al Divino Amore.
La sua attività proseguirà fino agli inoltrati anni Quaranta non solo a Napoli ed in costiera amalfitana, ma si irradierà anche verso la Calabria e la Puglia, fino a quando i tempi dell’ultima Maniera, anche se aggiornati al lume caravaggesco, non saranno esauriti definitivamente.
Il filone devozionale d’ispirazione toscana comprende autori importanti: Fabrizio Santafede, uno Stanzione ante litteram, campione incontrastato della nuova pittura, Giovanni Balducci, fautore di un pacato realismo domestico e Giovan Bernardo Azzolino, suocero del Ribera, il più seicentesco tra i tardo manieristi napoletani. Essi si limiteranno unicamente ad un viraggio di colore verso lo scuro nelle loro composizioni sacre dopo il 1608. A questi autori può essere affiancato Ippolito Borghese dal linguaggio intriso di pietismo e dallo stile aneddotico e devozionale.
Fabrizio Santafede attivo dal 1576 al 1623 importa in area meridionale la corrente toscana che cercava di coniugare la tradizione pittorica fiorentina a quella veneziana. L’artista si fa fautore di un nuovo modo di interpretare la storia sacra con un patetismo contenuto ma efficace. La luce nei suoi dipinti, a differenza di quella cavaraggesca, potente nel rilevare impietosamente ogni aspetto della realtà, si posa delicatamente su persone ed oggetti ed anche quando l’ombra è profonda permette una lettura completa della figura nel rispetto del disegno e della composizione.
Egli è stato paragonato a sommi pittori come Murillo o ad abili mestieranti come Santi di Tito, ma a nostro giudizio il paragone che meglio rende la lunga attività dell’artista è quello con Massimo Stanzione. Alla pari del collega seicentesco il Santafede volle cantare la poetica degli affetti, la serenità e la gioia della famiglia, come nel Bagno di Gesù Bambino, conservato nella quadreria dei Gerolamini, che più che un quadro sacro dà l’impressione di una tranquilla scena nell’intimità domestica, una sacra conversazione.
Il delicato problema del luminismo naturalista fu affrontato con un occhio attento ai quadri notturni del Bassano e della sua bottega, che furono molto richiesti per decenni anche nel meridione e si giovarono del successo del verbo caravaggesco. In un suo celebre dipinto come la Resurrezione, eseguito nel 1608 per il Monte di Pietà, il Santafede utilizza un effetto di lume notturno accentuato da lampeggiamenti, drammatico ed efficace, dando prova di un’originale interpretazione veneziana del caravaggismo.
Tutte le più importanti collezioni napoletane, da quella dei Filomarino agli Spinelli di Tarsia, si vantavano di possedere tele del Santafede, del quale le fonti ci tramandano anche una notevole attività di ritrattista di ispirazione fiamminga: analitica e descrittiva. Pochi esempi ci sono pervenuti e tra questi il principale è il Ritratto del viceré conte di Olivares e della moglie conservato a Madrid nella raccolta del duca d’Alba, mentre la sua abilità si può apprezzare anche nelle fisionomie dei committenti in alcune pale d’altare come in quella giovanile di Matera o nella tela per la chiesa dei Sette dolori.
Non possiamo giudicare le sue qualità di decoratore, che, sul finir della carriera, lo videro all’opera con Battistello per due anni nei perduti affreschi della Cappella del Tesoro.
Numerosi sono i suoi quadri per importanti committenti nel primo e secondo  decennio del secolo, mentre la sua bottega, assai prolifica, era in grado di soddisfare ordini che venivano non solo da Napoli e dal viceregno, ma dalla Spagna e dalle altre regioni italiane. 
Ricordiamo l’Incoronazione della Vergine (1601 – 02) per il soffitto di Santa Maria la Nova, la Pietà (1601- 03) per il Monte di Pietà, la Pentecoste (1609 – 10) per lo Spirito Santo, la Trinità con la vergine e Santi (1618 - 19) della chiesa di Monteverginella, la Madonna coi santi Francesco e Domenico (1623 – 24) nella chiesetta di Ruvo e tanti altri.
Tra gli allievi del Santafede che lavorano prevalentemente in provincia ricordiamo Giovanni De Gregorio, detto il Pietrafesa, il quale si muove nell’alveo della tradizione tardomanierista orientata all’assunzione di forme severe e controllate, aderenti alle norme tridentine, con accenni di naturalismo allo scopo di rendere più vere le immagini e più accessibile il messaggio ai fedeli. Nel 1610 firma e data una Madonna della Consolazione e Santi per la chiesa di Santo Stefano a Sala Consilina, mentre successiva è una Deposizione per il monastero di Castel Civita. 
Giovanni Balducci, nato a Firenze, appartiene alla generazione dei pittori toscani riformati. Trasferitosi a Roma dopo  alcuni anni di attività, nel 1596, si sposta a Napoli al seguito del cardinale Gesualdo, divenuto primate nella capitale del viceregno, dove risiederà per circa quaranta anni. Affrescherà nel Duomo la tribuna e la cappella degli Illustrissimi e parteciperà alla realizzazione nel 1621 del grandioso soffitto cassettonato.
Lavorerà con successo nei primi anni del secolo nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini ed in numerose altre imprese decorative in chiese e palazzi nobiliari. Da ricordare il suo contributo nel cassettonato dell’ Annunziata di Maddaloni eseguito nel 1604, nel chiostro del Carmine Maggiore, nel 1606 ed a Monteverginella. Diverrà uno degli esponenti di spicco del filone devozionale con una cospicua mole di opere caratterizzata da estrema ripetitività e semplicità compositiva, corretta nel disegno e dolce nel colorito, un realismo domestico con delicate cadenze didascaliche e narrative.
Riposa a Napoli in un’originale sepoltura inchiavardato nel muro in un corridoio delle catacombe di San Gaudioso poste sotto la basilica di Santa Maria della Sanità, un luogo a lui caro che lo aveva visto all’opera nel chiostro e nell’esecuzione di alcune pale d’altare.



Alla figura del Balducci sono legati alcuni artisti fiorentini che sul crinale del nuovo secolo inviavano opere o giungevano in città per trascorrere alcuni anni. Tra questi Pompeo Caccini del quale a San Giovanni dei Fiorentini in sacrestia si conserva un Battista in carcere del 1601, Agostino Ciampelli che inviava un’Entrata di Gesù in Gerusalemme conservata nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio e nel 1605 una tela per la Trinità delle Monache e Domenico Cresti detto il Passignano che entro il primo decennio faceva giungere a Santa Teresa degli Scalzi un Incontro della Vergine con Giuseppe. Senza dimenticare Cristofaro Roncalli detto il Pomarancio, il quale nel primo decennio invia varie opere, dalla Natività per l’altare Ruffo alla splendida Madonna col Bambino e San Francesco della quadreria dei Gerolamini. 
Giovan Bernardo Azzolino, nativo di Cefalù, per cui fu detto il Siciliano, è attivo a Napoli per oltre cinquanta anni dal 1594 al 1645. Frequentò il cantiere della Certosa uscendone perito frescante, come dimostrano i suoi affreschi nella cappella Ambrosino al Gesù Nuovo, eseguiti tra il 1605 ed il 1606.
Il De Dominici, con la sua fertile fantasia, ci descrive l’artista come uomo pio e devoto che avvertiva l’esigenza di accostarsi ai sacramenti prima di eseguire il ritratto della madonna, alla quale avrebbe consacrato la sua verginità, mentre sappiamo che ebbe non meno di quindici figli ed in particolare una figliola che andò sposa al Ribera.
Le sue composizioni sono semplici nella disposizione dei personaggi, quasi neo quattrocentesche, ma sono sempre di una qualità molto alta, in grado di produrre genuine e vibranti emozioni. Fu in contatto con i mercati anche fuori della città specialmente con Genova, grazie alla sua familiarità con il principe Marcantonio Doria, il quale nella sua famosa collezione possedeva ben quarantasette suoi quadri.
Numerose sono le sue opere in un arco di tempo molto ampio. Ricordiamo: la Circoncisione (1607) nella chiesa del Gesù e Maria, dove esegue anche la Madonna del Rosario per la cappella Romano (1609 - 1610), un Martirio di Sant’Orsola in collezione napoletana, intriso di naturalismo, una Madonna del Rosario (1612) per la chiesa di Santa Maria della Sanità, nella quale, nel 1627, esegue anche un’Annunciazione. Nel 1617 esegue la Santissima Trinità e Santi nel cappellone di Sant’Ignazio nel Gesù Nuovo, una tela di grosse dimensioni che dopo assurde per quanto autorevoli attribuzioni al Guercino, a Battistello e addirittura al Beltrano è stata assegnata ad Azzolino con certezza su base documentaria. Il San Paolino del Pio Monte della Misericordia è del 1630. Opere tarde sono il Miracolo di San Bernardino dell’Eremo dei Camaldoli e lo stesso Angelo custode della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone.
Egli fu il più seicentesco dei tardo manieristi ed i suoi quadri furono richiesti fino agli inoltrati anni Quaranta, a dimostrazione di un mercato, anche importante, di pittura intrisa da pietismo ma anche di piacevolezza domestica, dipinti pregni di religiosità seria e meditativa, ma di calda intonazione familiare. 
Ippolito Borghese, umbro di nascita, è attivo a Napoli a partire dal 1601 ed occuperà presto un posto di rilievo nel panorama artistico di stampo devozionale. Le sue fonti ispirative sono non solo quanto era stato realizzato nel cantiere della Certosa di San Martino, ma anche quanto prodotto dai fiamminghi napoletanizzati, sostenitori della maniera tenera. Nascerà uno stile caratterizzato da un accentuato pietismo delle immagini e da un’aria domestica delle composizioni spesso rallegrate da legioni di leggiadri puttini ridenti. 
Tra le opere più antiche la Crocefissione di Lucera dal sapore barroccesco, seguita dalle due Pietà di Capodimonte e della pinacoteca di Bari. Nel 1603 la grande pala dell’Assunzione per il Monte di Pietà dalla pennellata vaporosa e dalla palpabile matrice tardo manierista. Seguono le Storie di Santa Teresa per la chiesa eponima eseguite nel 1605 e dall’esito modesto e l’Immacolata per l’altare Amodio in Santa Maria la Nova del 1609.
Appartiene al primo decennio anche la spettacolare Cena in casa di Marta e Maria della Walpole Gallery, già in collezione Ganz.
In seguito Borghese rinterza anche lui fortemente gli scuri, pur conservando un’elevata qualità disegnativa e formale. Sono gli anni delle tele per la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (1618) e del Duomo di Perugia (1620) o della Madonna e Santi della chiesa di Santa Maria dell’Orto di Castellammare di Stabia (1621), tutte contrassegnate da un chiaroscuro molto marcato.
Paolo Finoglia, uno dei più famosi caravaggeschi napoletani, fu suo allievo e da lui erediterà una predilezione per le sete preziose e per i colori cangianti, oltre ai gioiosi puttini a volte prelevati letteralmente dai quadri del maestro.
Col Borghese il tenue confine tra tardo manieristi protrudenti nel Seicento e pittori naturalisti si fa ancora più sottile, una circostanza che si può ben apprezzare nelle grosse committenze eseguite in collaborazione, come il soffitto cassettonato di Capua o quello di Giugliano.
Giovanni Baglione, romano, pittore e biografo, celebre per il processo che lo oppose a Caravaggio, lavora nel cantiere della Certosa di San Martino e nel 1608 esegue per la chiesa del Pio Monte della Misericordia una Deposizione sostituita poi da una Pietà di Luca Giordano e trasferita nella quadreria. Si tratta di una tela fondamentale nel percorso dell’artista in un momento in cui massimo è l’influsso caravaggesco. 
Pompeo Landulfo è attivo in Italia meridionale fino al 1609, genero di Giovan Bernardo Lama lavora nella bottega che il suocero aveva con Silvestro Buono. Nella sua produzione riecheggiano con imitazione fedele e pedante i modi dei suoi maestri fortemente devozionali e con ascendenze fiamminghe.
Tra le sue opere seicentesche, molte ancora da identificare, citiamo l’Incoronazione della Vergine con anime purganti del 1604 e una Santa Lucia del 1609, conservate nella chiesa del Corpus Domini di Gragnano caratterizzate da una certa asprezza disegnativa e da una schematicità coloristica tipiche delle sue ultime opere. 
Più complessa è la posizione di Giovan Vincenzo Forli, la cui pittura è già più aderente alla lezione del Caravaggio. Egli fu definito dal De Lellis “pittore di prima classe nei suoi tempi” e senza esagerare rivestì una certa importanza nel campo dell’imprenditoria artistica del primo quarto di secolo. Nel primo decennio eseguì alcuni dipinti di buona qualità come le due Annunciazioni della Croce di Lucca (1600) e dello Spirito Santo(1602). Fu tra i primi, nella generazione di pittori tardo manieristi attivi a Napoli, a porsi il problema delle novità portate da Caravaggio con la nascita di una corrente di cultura naturalista e la dimostrazione lampante è costituita dal suo capolavoro: la Parabola del buon samaritano realizzata nel 1608 per una cappella del Pio Monte della Misericordia, nella quale gli scuri sembrano scimmiottare il divino luminismo del lombardo. Ebbe occasione poi di rilevare una committenza per una grande pala raffigurante la Circoncisione nella chiesa di Santa Maria della Sanità, lasciata insoddisfatta dal Caravaggio.
In seguito si trovò a collaborare con esponenti di spicco del naturalismo napoletano nella realizzazione di grandi soffitti cassettonati: con  Vitale e Battistello (tra il 1616 ed il ’20) nella chiesa dell’Annunziata di Capua ed in seguito (dal 1618 al ’21) nell’Annunziata di Giugliano e nel Duomo (1621). Terminerà in provincia nel 1639 la sua attività ripetendo stancamente formule collaudate per committenti di minore importanza. 




Nel campo delle grandi decorazioni, dopo l’esempio del celebre Cavalier d’Arpino nel cantiere della Certosa di San Martino, dove l’artista romano, nell’ultimo decennio del Cinquecento, è attivo col fratello ed una numerosa bottega nella realizzazione di grandi cicli dal piacevole tono narrativo, ras incontrastato delle committenze diverrà poi Belisario Corenzio, il quale fino al 1640 monopolizzerà il mercato che gli ordini religiosi, in nobile gara tra loro, incrementeranno incessantemente. La sua formazione artistica è ancora avvolta nell’ombra. Greco di origine e trasferitosi a Napoli in giovane età è stato descritto dal De Dominici come pittore dal comportamento camorrista in grado di minacciare la concorrenza e di accaparrarsi l’enorme numeroso di committenze dell’area napoletana, che riusciva a soddisfare grazie all’aiuto di una numerosa bottega. “Pittore copioso ma non scelto” fu definito dallo Stanzione, anche se non mancava di mestiere come sottolinea lo stesso De Dominici lodando le figure ben disegnate, il senso del colore, la varietà dei personaggi e l’ordine nelle composizioni.
La sua produzione è sterminata, tale da scoraggiare qualsiasi studioso a confrontarsi in un approccio critico serio e completo.
Tra i cicli seicenteschi segnaliamo, tra i principali,  quelli  dell’Annunziata (1598 – 1612), nel Monte di Pietà (1601 – 1604), nel Gesù Nuovo ( 1601 – 1637), in Santa Maria la Nova (1603 – 1621),  nei Ss. Severino e Sossio ( dal 1607 in avanti), in Santa Maria della Sapienza ( 1636 – 1641). 
Egli lavorò inoltre in molti palazzi pubblici e privati e nello stesso Palazzo Reale dove eseguì i Fasti della casa di Spagna e nell’Abbazia di Montecassino.
Fu prolifico disegnatore ed esecutore di pale d’altare, che la critica lentamente gli restituisce come l’Annunciazione nella Pietà dei Turchini, notoriamente attribuita al Forli e che un documento recentemente scoperto gli assegna nel 1616.
Lavorò incessantemente fino alla fine e chiuse con onore la sua carriera ultraottantenne, precipitando da una altissima impalcatura nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio e trovando la sua sepoltura nel punto del suo tremendo impatto.
Un piccolo spazio saprà procurarselo Luigi Rodriguez, siciliano, fratello di Alonzo, che comincia la sua attività nella bottega di Corenzio per poi, divenuto autonomo, lavorare nella cappella Montalto in Santa Maria del Popolo agli Incurabili e nel refettorio del convento di San Lorenzo. Egli si distinguerà dall’antico maestro per una più acuta sensibilità chiaroscurale, per una tavolozza più accesa e per un tocco lieve e delicato, che diverranno la sua firma nascosta. Sarà autore anche di pale d’altare e di quadri da cavalletto: nel soffitto cassettonato di Santa Maria la Nova, secondo le fonti, esegue tutti i quadri minori di figura, nel 1605 nella chiesa dell’eremo dei Camaldoli realizza la notevole Madonna coi santi Benedetto, Giovanni Battista, Romualdo ed Andrea; è inoltre presente nella Concezione degli Spagnoli, nello Spirito Santo e nel Carmine Maggiore. Molti altri dipinti ed affreschi sono conservati, in condizioni precarie, in altre chiese napoletane, a confermare la posizione di rilievo occupata dall’artista nel panorama figurativo napoletano del primo decennio.
In seguito, ostacolato dal Corenzio, sposterà la sua attività nel salernitano e si dedicherà anche alla miniatura, come testimoniano le ultime tre pagine del famoso Codice di Santa Marta e particolarmente i due spettacolari stemmi del viceré Ruiz de Castro e della moglie donna Caterina de Zuniga.
Nel campo della decorazione lavorano centinaia di pittori napoletani, molti dei quali ci saranno per sempre ignoti. Tra i nomi da ricordare citiamo Simone Papa,  Onofrio De Lione e Giulio dell’Oca.
Simone Papa, documentato fino agli anni Trenta, in Santa Maria di Monteverginella esegue degli affreschi originali con le Storie di San Guglielmo ed in Santa Maria la Nova lavora nel chiostro e nel coro. In tutte le sue opere egli appalesa un linguaggio esuberante, ricco di toni drammatici e di colori violenti, che accendono arditi scorci prospettici.      
Onofrio De Lione, collaboratore fidato del più noto fratello Andrea nelle imprese decorative, lavora in numerose chiese napoletane e nella sua produzione di mediocre qualità segnaliamo un’Andata al Calvario nella chiesa della Pietà dei Turchini, due riquadri nella cappella di San Sebastiano in San Pietro a Maiella eseguiti nel 1643 ed una serie di affreschi firmati del 1651 nella sacrestia dei Ss. Severino e Sossio,
Giulio dell’Oca, documentato fino al 1644, negli affreschi è influenzato dalla maniera tenera di Giovannangelo D’Amato, mentre nei dipinti segue un arido impianto devozionale. Fu pittore prediletto dai Gesuiti per i quali, nel Collegio di Lecce, dipinse nel 1608 ben 100 quadri raffiguranti Martiri dell’Ordine. La critica gli attribuisce la pala dell’altare maggiore nella chiesa di Santa Maria Apparente.
A partire dai primi anni del secolo, senza attendere il prorompente arrivo in città del Caravaggio, si avverte nell’aria che qualche cosa sta succedendo e lentamente tutti gli artisti, anche quelli di prestigio cominciano a rivedere le loro posizioni cercando di aggiornarsi. Il grande Giubileo del 1600 ha condotto a Roma turbe di fedeli e tra questi, anche se non è documentato con precisione, sicuramente molti pittori, i quali non avevano difficoltà ad ammirare le principali opere del grande lombardo, in gran parte a collocazione pubblica.
Una lampante dimostrazione di quanto asserito è rappresentata da un disegno del Corenzio, conservato nel museo di Capodimonte, copia con varianti di una delle tele laterali della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi la Chiamata di San Matteo. Il foglio risente ancora della fase manieristica di Belisario, un artista che notoriamente non venne influenzato dalle nuove mode e continuò imperterrito sulla sua strada, appaltatore incontrastato delle grandi imprese decorative a Napoli e nel vice regno fino al 1643, quando, ultra ottantenne, chiuse in gloria la sua attività , precipitando da imponenti  impalcature nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio.
Più volte la critica è andata alla ricerca di precursori meridionali del Caravaggio ed alcuni autori hanno creduto di trovare in alcune opere di Aert Mytens , un fiammingo conosciuto anche come Rinaldo Fiammingo, dei segni inequivocabili del nuovo verbo. In particolare un Cristo deriso, iniziato a Napoli e completato a Roma, certamente prima del 1602, anno di morte del pittore, presenta effetti chiaroscurali così manifesti ed un’azione drammatica talmente incalzante, da far credere ad occhi non smaliziati di trovarsi innanzi a sconvolgenti novità. L’effetto di lume notturno adoperato dal Mytens richiama però Luca Cambiaso e non è adoperato con fini naturalistici, mentre la carica di realtà rappresentata sulla tela è assolutamente generica. Ed inoltre il modo di contornare i personaggi con precisione disegnativa ci dimostra che la pittura del fiammingo è perfettamente in linea con i dettami del Manierismo internazionale di Spranger e di Goltius, uno stile di grande successo che imperversò all’epoca in tutta Europa.
Ma sarà soltanto la sconvolgente lettura diretta della realtà e la novità di una luce che viene dall’alto, a definire, con il magistrale gioco del chiaro scuro, i personaggi. L’arrivo in città di questa rivoluzione ci farà apparire all’improvviso ridicole caricature, ai limiti del grottesco, le opere degli artisti all’ora in auge in città, dal Curia all’Imparato, dal Rodriguez al Corenzio, dal Borghese all’Azzolino.
Tutti si convincono di colpo che il modo di rappresentare la pittura sacra ha subito una svolta definitiva e gli artisti cercano di correre ai ripari, calcando le ombre e dando agli sfondi una consistenza più tangibile, ma per i tardo manieristi partenopei è una battaglia persa in partenza. La ricchezza del mercato napoletano è però ampia e differenziata e molti pittori continueranno tranquillamente a lavorare a pieno ritmo fino a metà secolo, soddisfacendo decorosamente una committenza devozionale.




Tra i pittori napoletani che tributarono al Merisi l’accoglienza più entusiastica vi è in prima fila Carlo Sellitto, nato culturalmente in ambito tardo manierista filtrato dall’insegnamento del fiammingo Lois Croise, per accogliere poi il nuovo messaggio e dar luogo a composizioni drammatiche, animate da un’intensa tensione emotiva e da una spasmodica ricerca di verità, con un dominio della luce che modella le immagini attraverso un sottile gioco di ombre patognomonico del suo stile.
La sua prima opera documentata, unica firmata, è del 1606 e si trova in provincia ad Aliano. Essa raffigura una Madonna in gloria con donatore e nonostante l’impronta manieristica baroccesca presenta in basso un’immagine del committente dalla precisione ottica stupefacente, a lampante dimostrazione dell’abilità dell’artista come ritrattista. Sempre in Basilicata, terra natia del pittore, è conservata a Melfi una Madonna del suffragio con anime purganti, intrisa di naturalismo con la luce che evidenzia le figure ed i gesti, sottolineando la drammaticità della scena.
In ambiente napoletano la sua più importante commissione lo impegnerà dal 1608 al 1612 in Sant’Anna dei Lombardi nella cappella Cortone, nell’esecuzione di un ciclo su San Pietro, dove ha l’occasione di lavorare al fianco di Caravaggio attivo nella cappella Fenaroli e del Caracciolo operante nella cappella Noris Correggio. Un cataclisma, distruggendo la chiesa nel Settecento, non ci ha permesso un confronto tra le opere in gran parte distrutte. Delle cinque eseguite dal Sellitto se ne sono salvate soltanto due, segnate da un fascio luminoso potente, che scandisce i corpi nel ritagliarsi violento delle ombre.
In seguito egli esegue, tra il 1610 ed il 1613, il San Carlo per la chiesa di Sant’Antoniello a Caponapoli e la splendida Santa Cecilia all’organo per la chiesa della Solitaria, entrambe oggi a Capodimonte, l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli Incurabili e la Visione di Santa Candida per Sant’Angelo al Nilo, percorsa da un brivido di luce calda e avvolgente.
Altre opere da aggiungere al suo scarno catalogo sono la Santa Lucia del museo di Messina ed il David e Golia del museo nazionale della Rhodesia.
Un segno tangibile del prestigio raggiunto dal pittore presso la committenza fu l’incarico, nel 1613, di eseguire una Liberazione di San Pietro da collocare su un altare del Pio Monte della Misericordia, ma l’opera per l’improvvisa morte del Sellitto fu poi affidata al Battistello.
Egli lasciò nella sua bottega numerose tele incompiute, tra cui il Crocefisso  per la chiesa di Portanova, oggi purtroppo scomparso per un ignobile furto ed il Sant’Antonio da Padova per i governatori di San Nicola alla Dogana, ricco di un gioco luminoso sui volti ed in cui si può leggere come segno distintivo, quasi una firma nascosta del pittore, il classico tocco di luce sulle fisionomie dei personaggi, che si può apprezzare anche nella famosa tela di Santa Cecilia all’organo.
Nel suo atelier vi erano anche una serie di quadri di natura morta, di paesaggio ed è inoltre noto dai documenti che fu celebre ritrattista, ricercato da nobili e borghesi, una produzione al momento completamente sconosciuta agli studi eccetto poche esempi. Tra questi possiamo segnalare il Ritratto di gentildonna in vesti di Santa Cecilia, transitato più volte sul mercato, nel quale si avverte un contemperamento dei caratteri caravaggeschi con intenerimenti classicistici e preziosismi cromatici di matrice reniana, consentaneo alla presenza a Napoli nel 1612 del divino Guido.
Il Bacco del museo di Francoforte, variamente attribuito negli anni, è certamente opera del Sellitto, intorno al 1610, per le stringenti affinità nel gioco delle ombre con l’angioletto della Santa Cecilia,  clone perfetto che richiama a viva voce lo stesso pennello e per lo splendido brano di natura morta ci conduce agli esordi della pittura di genere in area napoletana.
Alla fase luministica del caravaggismo appartiene l’attività giovanile di Filippo Vitale, un artista di rilievo, quasi completamente trascurato dalle fonti antiche e la cui personalità è stata ricostruita solo negli ultimi decenni.
Egli è imparentato con Annella e Pacecco De Rosa di cui è patrigno, con Giovanni Do, Agostino Beltrano ed Aniello Falcone di cui è suocero. Un tipico esempio di quella ragnatela di parentele che lega molti altri pittori napoletani del primo Seicento, i quali abitarono quasi tutti nella zona delimitata tra piazza Carità e lo Spirito Santo, vera Montmartre dell’epoca. Su tanti intrecci ci ha illuminato la ricerca durata un’intera vita di un benemerito erudito, il Prota Giurleo, il quale con certosino lavoro di spulcio di processetti matrimoniali, testamenti, fedi di battesimo, polizze di pagamento ed inventari, ha fornito ai critici una mole enorme di dati e di documenti sulla quale lavorare per ricostruire la personalità di tanti artisti.
Vitale è allievo di Sellitto del quale completa il Crocefisso di Santa Maria in Portanova ed anche lui lavora in Santa Anna dei Lombardi, dove riceve dai Noris Correggio per un San Carlo Borromeo un compenso molto alto di ben duecento ducati.
Dipinge poi la Liberazione di San Pietro dal carcere del museo di Nantes, il San Sebastiano conservato a Dublino e il Sacrificio di Isacco del museo di Capodimonte Tra il 1617 ed il ’18 è impegnato ad eseguire otto tele per il soffitto dell’Annunziata di Capua, che purtroppo versano oggi in pessimo stato di conservazione.
Successiva è la grande pala dei Santi vescovi, già in San Nicola alle Sacramentine di un intenso naturalismo impregnato dalla lezione caravaggesca,  nella quale si possono ipotizzare anche scambi culturali con Tanzio da Varallo dotato di un più intenso senso luministico.
In seguito si avvicina ai modi di Ribera raggiungendo il culmine del suo percorso naturalistico con il San Sebastiano della chiesa dei Sette dolori e l’Angelo custode della Pietà dei Turchini, il suo capolavoro, uno dei quadri più importanti del Seicento napoletano, dal poderoso impianto compositivo, nel quale al ricordo del valenzano si impongono suggestioni di rigoroso naturalismo, potente creazione in cui è facile leggere nel volto dei personaggi la rabbia e il disappunto, la serenità e la giustizia, il candore e l’innocenza.
La Deposizione della chiesa di Regina Coeli, firmata e databile intorno al 1635 apre una fase di crescente inclinazione prima in senso pittoricistico e poi decisamente classicista, che sfocerà nell’ultimo decennio in una fase pacecchiana, dopo un lungo periodo di collaborazione col figliastro. La sua tavolozza divenne sempre più smaltata e ricca di colori luminosi e vivaci come si avverte nella Fuga di Loth da Sodoma, firmato e datato 1650, di collezione privata pendant di un Rachele e Giacobbe realizzato dal De Rosa.
Numerose sono le tele a quattro mani che la critica, progredite le cognizioni sui due artisti, ha identificato, dalla Madonna e San Carlo di San Domenico Maggiore alla Gloria di Sant’Antonio conservato nell’eponima arciconfraternita in San Lorenzo, mentre molti dipinti risentono ancora di scambi nella paternità tra i due parenti e necessitano di percorrere un arduo sentiero attributivo avvolto ancora più da ombre che da luce.
Tra i caravaggisti minori attivi a Napoli bisognerà ricordare Tanzio da Varallo, Alonso Rodriguez, ed Antiveduto Grammatica.
Tanzio da Varallo, provinciale nordico di cultura manieristica e di spirito controriformato, ingegno vivo ed ardente di passione, raggiunge già intorno al 1612 un così alto grado di severità iconica espressa in forma naturalistica da prefigurare ed anticipare lo Zurbaran più ispirato. Scoperta relativamente recente è la sua attività in Abruzzo, ma anche nella capitale vicereale dove gli sono state assegnate prima dal Longhi e poi dal Bologna le due grandi pale di Pescocostanzo e di Fara San Martino ed a Napoli i frammenti di Santa Restituta. Palpabile è la tangenza fra le sue opere prima del 1616 e vari dipinti napoletani specialmente di Filippo Vitale, sul quale un influsso notevole è consistito nell’accentuata asprezza del linguaggio e nella lucidità di espressione.
Su Alonzo Rodriguez, dopo l’attenzione dedicatagli dal Causa, che cercò, nel 1972, sulla guida delle precedenti ricerche del Moir e sulle notizie fornite dal biografo siciliano Sisinno, di ricostruire la sua attività a Napoli, Negri Arnoldi è ritornato sull’argomento. Rilevando l’intensità dell’ascendente caravaggesco nei dipinti messinesi, riferibili alla fase più antica del maestro ed ipotizzando che egli, dopo un primo soggiorno nell’ultimo decennio del secolo presso il fratello Luigi, anche egli pittore,  ritornasse nella capitale vicereale a cavallo del 1606 - 07, in contemporanea al Caravaggio. Tali considerazioni accrescono l’importanza dell’innesto di Alonzo Rodriguez nel momento cruciale del caravaggismo napoletano subito dopo la scomparsa del Sellitto e la sua influenza non solo sulla pittura partenopea, ma anche su quella iberica, perché molte sue opere raggiunsero in quel periodo la Spagna, dove funsero da modello nei primi tempi del naturalismo iberico.
Tutt’altra vicenda toccò invece ad Antiveduto Gramatica, di una generazione più anziano degli altri. Al quale l’aver avuto nella propria bottega, intorno al 1590, nientemeno che Caravaggio in persona, non impedì di continuare a dipingere stancamente ed a lungo con moduli tardo manieristici appena sfiorati dal lume. Ma quando infine, all’improvviso, poco prima degli anni Venti, si convertì al caravaggismo, il risultato fu una serie di opere sulla vita di San Romualdo, tra Frascati e l’Eremo dei Camaldoli a Napoli, con i suoi bianchi luminosi di una luce chiarissima, che intensifica i volumi fino alla sublimazione, in un clima di estasi mistica, che regge il confronto con le tele del massimo pittore religioso del secolo, lo spagnolo Zurbaran.
Per completare il panorama sul corteo di seguaci della lezione caravaggesca in area meridionale bisogna accennare a quel gruppo di stranieri, prevalentemente nordici, spesso noti con nome di convenzione, alcuni di livello molto alto, sui quali gli studi sono in ritardo anche per la scarsità di documenti di pagamento.
Mentre un coacervo di personalità maggiori e minori lavora a stretto contatto di gomito nell’ultima fase del luminismo napoletano, intorno al terzo decennio, va segnalata l’opera di Paolo Finoglia, che con i suoi primi lavori dimostra già una grande maturità tale da farlo considerare uno dei più importanti tra gli antichi maestri.
Il De Dominici lo include tra gli stanzioneschi, ma noi preferiamo trattarne sull'onda delle ultime battute del caravaggismo in area napoletana.
Una formazione tardo manierista, all’ombra di Ippolito Borghese, che lentamente si trasforma in una piena adesione ai fatti del caravaggismo, sotto l’influsso del Battistello, ma soprattutto di Antiveduto Gramatica, le cui tele del 1620 per l’Eremo dei Camaldoli rappresentano il prototipo ispiratore per la serie di lunette con i dieci santi fondatori di ordini religiosi per la sala del Capitolo a San Martino. È documentata al 1626 la Circoncisione, sempre nel Capitolo di San Martino, la quale sembra già opera più matura delle lunette, alto esempio di luminismo rischiarato in contiguità alle esperienze del Vouet e del Battistello della Liberazione di San Pietro dal carcere. Scandaglio minuzioso dei particolari, asciuttezza e rigore nella rappresentazione, ricercatezza del disegno ed un cromatismo pieno ed abbagliante fanno la grandezza del Finoglia, che in seguito nell’Immacolata di San Lorenzo Maggiore del 1629 seppe fornirci in un «miracoloso fruscio di sete e di rasi nella notte» (Causa), un’immagine di grande monumentalità.
Altro suo capolavoro della maturità è il Giuseppe con la moglie di Putifarre del Fogg Museum di Cambridge, in cui egli aggiorna la sua tecnica pittorica, sotto la suggestione di Artemisia Gentileschi, prendendo definitivamente congedo dalle prime esperienze tardo manieriste e giungendo all'esperienza di «materie cromatiche luminose ed iridiscenti come rasi fruscianti» (Spinosa).
Quando già è un artista di successo il Finoglia si trasferisce in Puglia, chiamato dalla nobile famiglia degli Acquaviva d’Aragona e lì per il castello del conte esegue una serie di dieci tele con episodi della Gerusalemme Liberata oltre a numerose pale d’altare per varie chiese tra Monopoli e Conversano.
Il livello qualitativo delle sue opere rimane molto alto, oggi che la critica ha sfrondato, grazie alle ricerche del D’Elia, la sua produzione in terra di Puglia dall’apporto spurio di allievi ed imitatori, contraddicendo all’ipotesi che il Finoglia si fosse ritirato in provincia per un calo di tensione artistica: anzi la sua pittura acquisisce rari impreziosimenti grazie all’apporto di nuovi fermenti vandyckiani e neoveneti.
Il Miracolo di San Domenico della chiesa dei SS. Cosma e Damiano a Conversano, una delle sue ultime opere è da considerare tra i risultati più alti di tutto il naturalismo napoletano ad indirizzo luministico.
Tra i suoi allievi in terra di Puglia degno di menzione è Carlo Rosa nativo di Giovinazzo già attivo a Napoli a Santa Maria della Sapienza ed ai Santissimi Apostoli, quindi, ritornato in patria per divulgare il verbo stanzionesco, e postosi al seguito del Finoglia ne porta a compimento dopo la sua morte gli affreschi nella chiesa dei Santissimi Cosma e Damiano. Molto bella è la sua Battaglia di Clavijo nella cattedrale di Monopoli vicino Bari. Francesco Antonio Altobello è a sua volta suo allievo e porta da Napoli in Puglia il messaggio giordanesco giungendo a discreti risultati.
Dei due artisti daremo un più dettagliato profilo quando parleremo degli stanzioneschi.



Tra gli stranieri attivi a Napoli Louis Finson è da tempo noto alla critica, non solo come artista ma anche come mercante di quadri; egli fu infatti proprietario della Madonna del Rosario, rifiutata dai committenti perché giudicata indecorosa ed oggi a Vienna e di una perduta Giuditta ed Oloferne, della quale ci ha lasciato una copia conservata nel museo del Banco di Napoli. Egli prese per moglie una napoletana e fu presente in città a partire dal 1604 e certamente fino al 1612, quando firma l’Annunciazione di Capodimonte con la dizione fecit in Neapoli. La sua pittura è secca ed elementare, compendiaria nel disegno e poco attenta ai problemi della luce, con una predilezione per il dettaglio aneddotico. Egli aveva, come pochi altri pittori, libero accesso allo studio del Caravaggio e tra le sue tele replicò numerose volte la Maddalena Klain, nella quale aggiunse il dettaglio di un teschio assente nell’originale.  Ebbe come socio Abraham Vinck, celebre ritrattista a giudicare dai numerosi documenti di pagamento che coprono tutto il primo decennio, ma che attendono ancora di essere collegati ai rispettivi dipinti. Il loro soggiorno in città incise sulla loro formazione al punto che quando si trasferirono ad Amsterdam erano definiti napoletani. Un altro collaboratore napoletano del Finson, tra il 1611 ed il ’12, fu Marten Hermans Faber, personaggio estroso e multiforme, attivo anche come ingegnere ed architetto, del quale non sono state ancora identificate opere certe.
Tra i nomi di convenzione il più antico è il Maestro di Resina, un pittore transalpino, forse lorenese, attivo in città nel secondo decennio del secolo XVII, il quale fece la sua apparizione con una pala d’altare raffigurante una Fuga in Egitto alla mostra tenutasi nel 1954 sulla Madonna nella pittura del Seicento a Napoli. La scena di una intensa commozione presenta delle trasparenti preziosità nella veste della Vergine, il tutto immerso in un’atmosfera di pacato sentimento. In seguito il catalogo dell’anonimo pittore si è accresciuto con l’identificazione, da parte del Bologna, della stessa mano nel Cristo che lava i piedi di palazzo Spinola a Genova e nel Sacrificio di Isacco di collezione privata bolognese; le stesse inconfondibili teste di vecchi dalle stanche mani anchilosate, la stessa geometria luminosa.
Il Maestro dell’Emmaus di Pau è una figura di primo piano nel panorama del primo caravaggismo a Napoli, ricostruita dal Bologna attorno ad una Cena in Emmaus già presso l’antiquario Heim, dove era stata studiata da Longhi ed acquistata in seguito dal museo della cittadina francese. Affianco a questa tela sono associabili un Martirio di San Sebastiano di collezione privata, un Santo condotto al martirio di raccolta napoletana, già presentato alla rassegna di Civiltà del Seicento come Finson, un Astronomo del museo di Montargis e di recente una Negazione di Pietro di collezione milanese. Tutti dipinti segnati da una crudezza arcaica nell’impaginazione e dalla medesima qualità nel sintetismo luministico e formale. L’utilizzo comune di alcuni modelli presenti in opere di Filippo Vitale ha fatto ipotizzare a qualche studioso di trovarsi al cospetto di una fase antica dell’artista, come pure una traccia da perseguire nella ricerca di un nome per lo sconosciuto maestro è di reperire qualche tela attribuibile ad Abraham Vinck, noto come celebre ritrattista e fornito di innumerevoli documenti di pagamento. Infatti una caratteristica fondamentale di questo anonimo maestro, precorrendo Ribera, è l’abilità di compiere una profonda introspezione psicologica dei personaggi raffigurati, indagati spietatamente nella debolezza e nel decadimento  della carne, al punto da farne uno dei più abili ritrattisti del primo decennio.
Di altri artisti, prevalentemente stranieri, per i quali è stato coniato il termine di amici nordici del Caravaggio, il Bologna ha delineato alcune figure: il Maestro dell’Emmaus di Sarasota ed il Maestro del San Pietro liberato di Aurillac, ma nuovi studi sono necessari per illuminare le loro personalità artistiche e per cercare un nome a questi nuovi ed ancora poco conosciuti comprimari del caravaggismo napoletano. Del Maestro del Gesù dei dottori accenneremo a proposito del Do.
Tra questi artisti stranieri un posto a sé, del tutto originale, spetta a due pittori lorenesi, presenti a Napoli nei primi decenni del secolo ed in passato confusi sotto la stessa denominazione di Monsù Desiderio. Parliamo di Didier Barra e di Francoise De Nomè, di due anni più giovane.
Didier Barra è un vedutista scrupoloso ed attento ai particolari topografici, acuto illustratore dei panorami della città e dei dintorni, che egli documenta fedelmente con una tecnica personalissima, detta a volo d’uccello. Egli collabora con alcuni pittori napoletani e bellissima è la veduta della città di Napoli eseguita nella parte inferiore della famosa tela di Onofrio Palumbo, conservata nella chiesa della Trinità dei Pellegrini.
Francois De Nomè viceversa è pittore di cataclismi propenso alla divagazione fantastica, all’estro ed alla stravaganza inventiva, specializzato in capricci architettonici dominati da una tensione surreale metafisica, che ha dato luogo a più di un tentativo di spiegazione in chiave psicoanalitica.
Amante del meraviglioso e del sorprendente egli trasfuse tutto ciò nella sua pittura fantastica. Intenso fu il rapporto di scambio culturale con la colonia fiamminga di Napoli, con il Croise, maestro del Sellitto e con vari manieristi nordici quali il Lawers e lo Swanenburgh conosciuto a Napoli.
Nella sua scia lavorano una serie di seguaci ed imitatori che solo gli ultra specialisti riescono a distinguere e tra i quali segnaliamo il Maestro di Malta.
Una volta distinte le diverse caratteristiche dei due pittori è stato possibile ridefinire il loro catalogo ed è stata precisata anche l’opera e la figura di Cornelio Brusco, che spesso completa con vivaci figurine le fantastiche architetture del De Nomè e che oggi la critica tende ad identificare col Filippo D’Angeli, sotto la cui denominazione il Longhi nel 1957 raccolse una serie di opere denotanti la stessa mano.
Nel 1616 giunge a Napoli Jusepe Ribera che rappresenterà una delle figure più importanti del Seicento europeo; valenzano di nascita, ma napoletano a tutti gli effetti per scelta culturale, interessi familiari, affinità di sentimenti. A Napoli avrà residenza, affetti, lavoro, protezione e per alcuni anni sarà protagonista assoluto e punto di riferimento indiscusso.
La sua bottega che forgerà alcuni dei maggiori pittori del secolo dal Maestro degli Annunci ai due Fracanzano, dal Falcone a Salvator Rosa, allo stesso Giordano, sarà un punto di riferimento e di scambio culturale anche verso la Spagna, ove giungerà gran parte della sua produzione, mentre dal Murillo allo Zurbaran, fino allo stesso Velazquez, ospite del Ribera per alcuni mesi nel 1630, perverrà a Napoli l’eco della migliore pittura spagnola, il cui influsso possiamo cogliere agevolmente da un’attenta lettura di molte opere del Finoglia, del Falcone, del Vaccaro, del Guarino e di tanti altri ancora.
Le sue opere ebbero una notevole diffusione anche per la sua abilità di incisore, grazie alla quale egli riproduceva e moltiplicava le sue opere più significative.
Poco sappiamo della sua giovinezza, la tradizione gli assegna come maestro il Ribalta, dal 1611 al 1616 è a Roma, dove con i caravaggisti stranieri, legati da un realismo descrittivo dagli effetti caricati, ci sarà uno scambio fecondo di idee e di esperienze. Di recente è stata proposta una diversa ricostruzione della sua produzione romana con lo spostamento nel suo catalogo dei dipinti precedentemente assegnati al Maestro del Giudizio di Salomone, ipotesi che per il momento non ha convinto gran parte degli studiosi. Certamente da respingere la pretesa di attribuire al Ribera la Negazione di Pietro della sacrestia della Certosa di San Martino che è opera di un ignoto caravaggista nordico attivo intorno al 1620.
Al periodo romano intorno al 1614 – 15 è da collocare la serie di dipinti personificanti i cinque sensi, nota inizialmente da copie seicentesche e per il racconto delle fonti (Mancini) ed in seguito identificata in tele certe del Ribera: dal Gusto di  Hartford al Tatto di Los Angeles, dalla Vista di Città del Messico all’Olfatto di una collezione madrilena. A quegli anni appartiene anche, per evidenti affinità stilistiche, lo splendido Democrito presso Pietro Corsini a New York.
Giunto nel maggio del 1616 a Napoli egli sposerà la figlia del pittore Giovan Bernardo Azzolino ed entrerà nelle grazie del viceré, il duca di Osuna, che diventerà il suo protettore, come lo saranno in seguito tutti i potenti di Spagna, presso i quali il suo prestigio sarà illimitato. Egli del luminismo diede una sua personale interpretazione: il realismo caravaggesco fu infatti profondamente drammatico e sintetico, quello di Ribera fu analitico, caricaturale fino al grottesco.
Il Ribera si abbandona ad un verismo esasperato al di là di ogni limite convenzionale col suo pennello intriso di una densa materia cromatica, con un vigore di impasto che ricorda l’accesa policromia delle più crude immagini sacre della pittura spagnola coeva, segno indefettibile della sua mai tradita hispanidad, ignara dei risultati della pittura rinascimentale italiana. Ed ecco rappresentato un infinito campionario di umanità disperata e dolente, ripresa dalla realtà dei vicoli bui della Napoli vicereale con un’aspra e compiaciuta ostentazione del dato naturale.
Con una tavolozza accesa vengono rappresentati con enfasi appassionata e senza alcuna pietà santi ed eremiti penitenti, sadicamente indagati nella smagrita decadenza dei corpi consunti, dalla epidermide incartapecorita e grinzosa, dagli occhi lucidi e brillanti, martirii efferati e spettacolari, giganti contorti in esasperazioni anatomiche, repellenti esempi di curiosità naturali: donne barbute e bambini storpi dal sorriso ebete; tipizzazioni mitologiche spinte fino all’osceno, come la ripugnante figura del Sileno nella dilagante rotondità dell’enorme ventre pendulo; il tutto con un tono superbo e crudele e con accenti di grottesca ironia e di cupa drammaticità.
Lentamente la brutalità delle sue prime composizioni che fece esclamare al Byron che il Ribera”imbeveva il suo pennello con il sangue di tutti i santi” cedette ad una maggiore ricerca di introspezione psicologica dei personaggi e ad un lento allontanamento dal tenebrismo per approdare, sotto l’influsso della grande pittura veneziana e dal contatto con la pittura fiamminga di radice rubensiana e vandychiana, a nuove soluzioni di “chiarezza pittorica e di rinnovata cordialità espressiva che culmineranno nello splendido Matrimonio di Santa Caterina del Metropolitan di New York “sintesi superba di naturalismo, classicismo e pittoricismo in una sublime armonia di luci e colori” (Spinosa).
Dopo il 1640 una grave malattia limitò di molto la sua attività, anche se la collaborazione di una bottega molto valida gli permise di immettere sul mercato ancora molte opere, spesso da lui firmate anche se eseguite solo in parte.
Anche nella piena maturità Ribera non rinuncia a certi effetti ottenibili solo attraverso contrasti di luce ed ombra e con la grande Comunione degli apostoli completata nel 1651 per i monaci della Certosa di San martino egli ci regala la sua ultima opera, che esprime la summa del suo stile, perché ad una visione naturalista del volto degli apostoli si accoppia una solenne scenografia di puro stampo veronesiano.
La bottega del valenzano assunse a Napoli un’importanza fondamentale e fu un polo di riferimento culturale per un’intera generazione di pittori, alcuni direttamente suoi allievi, altri come il Giordano, che si formò giovanissimo sui suoi esempi, esercitandosi nell’imitazione a tal punto da sconfinare nel plagio. Il messaggio riberesco si irradiò non solo a Napoli ed in Italia ma in tutta Europa, principalmente in Spagna e fu rappresentato da una pittura che, nata sotto l’influsso del luminismo caravaggesco, seppe cogliere e tradusse in immagini la realtà più intima degli uomini e volle parlare più al cuore che alla mente.



Tra i suoi allievi il più contiguo al suo stile fu il suo conterraneo Giovanni Do, il quale, come ci racconta il De Dominici, fu “tanto verace imitatore del Ribera suo maestro, che le copie erano prese per originali…massimamente alcune figure di filosofi e di san Girolamo, che nel maneggio del colore e nel girar dell’impasto eran tutt’uno”.
Il catalogo dell’artista, è ancora tutto da definire perché al momento l’unica sua opera certa e l’Adorazione dei pastori conservata nella sacrestia della chiesa della Pietà dei Turchini, quadro di altissima qualità, che ce lo rivela come una personalità vigorosa dalla complessa cultura figurativa.
I documenti ci rammentano che fu a Napoli dal 1623, sposò tre anni dopo una sorella di Pacecco De Rosa ed ebbe dieci figli. Fu autore di molte opere, ricordate in numerosi inventari sia a Napoli che in Spagna, ma allo stato degli studi la critica ha solo avanzato qualche ipotesi attributiva segnalando alcuni dipinti che denunciano lampanti somiglianze col quadro napoletano. Essi sono la Vergine con il Bambino del Louvre e due Adorazioni dei pastori, una presso la National Gallery di Londra e l’altra dell’Accademia di San Fernando di Madrid.
Da espungere il Cristo tra i dottori di collezione Recchi a Torino, che Longhi nel 1968 attribuì al Do e che il Bologna ha ritenuto di farne l’opera capofila da cui ricostruire il catalogo di un artista ancora anonimo, attivo a Napoli negli anni Trenta, che si espresse con opere di altissima qualità e che per il momento bisognerà accontentarsi di definire come Maestro del Gesù dei dottori.
Di recente il De Vito ha ripetutamente proposto di assegnare tutte le opere del Maestro dell’Annuncio ai pastori al Do sulla base di una controversa lettura della firma del pittore su alcuni dipinti. Tale ipotesi è stata accolta favorevolmente da una parte della critica, ma necessita di nuove e più probanti conferme.
Giovanni Do vivrà fino alla peste e sarà stato certamente in prima fila nel momento di ripresa naturalistica che a Napoli fiorirà nel quarto decennio ed avrà tra i suoi esponenti, oltre al Guarino, anche artisti stranieri come i due Van Somer e lo Stomer e personalità minori in corso di definizione come il Ricca ed il Manecchia.
Hendrick Van Somer è, tra gli allievi del Ribera ricordati dal De Dominici, un artista dalla forte anche se disordinata personalità. La definizione del suo catalogo è particolarmente difficile per la contemporanea presenza a Napoli di due artisti con uguale nome e cognome, uno, figlio di Barent ed un secondo, figlio di Gil. Il primo nato nel 1615 e morto ad Amsterdam nel 1684, il secondo, nato nel 1607 e scomparso forse durante la peste del 1656, presente in città dal 1624.
Al primo la critica assegna il Battesimo di Cristo, eseguito per la chiesa della Sapienza nel 1641 ed un Martirio di San Bartolomeo, gia in collezione Astarita a Napoli.
Per il secondo Bologna e Spinosa hanno ricostruito un percorso artistico più articolato con dipinti che, dopo un periodo di osservanza riberiana, sfociano nel nuovo clima pittoricistico di matrice neoveneta che maturò a Napoli intorno alla metà degli anni Trenta, un momento in cui cominciò a prevalere il cromatismo sul luminismo. La sua pittura, che tradisce l’origine fiamminga e la dimestichezza con i caravaggisti nordici, è caratterizzata dal viraggio della luce verso una pacatezza dei colori ed un contenuto iconografico severo.
Le opere che possono essergli attribuite sono oramai numerose dal Sant’Onofrio della collezione Cicogna di Milano alla Guarigione di Tobia del museo del Banco di Napoli, dall’Estasi sul tamburo, già presso l’antiquario Lucano di Roma alla Decollazione del Battista della collezione Bernardini di Padova.
In seguito il Van Somer impreziosisce la sua tavolozza alla ricerca di esiti sempre più  spinti di raffinatezza formale ed è il periodo del Sansone e Dalila già nella raccolta dei principi Firrao, del Loth e le figlie già presso Heim a Londra, del David con la testa di Golia, siglato di una raccolta romana e dello stupendo Venere ed Adone di una collezione napoletana.
Del 1635 è la Carità già nella collezione Bosco, siglata, mentre le sue ultime opere sono il San Girolamo della Trafalgar Galleries di Londra e della Galleria Borghese di Roma, rispettivamente siglato 1651 e firmato 1652.
Matthias Stomer fa parte della seconda ondata del caravaggismo a Napoli e nelle sue opere è tangibile il riferimento al naturalismo di Ribera.
Egli nasce ad Amersfoort, ma trascorre quasi tutta la sua vita in Italia, prima a Roma, ove intorno al 1630 eseguì dipinti caratterizzati da grande nobiltà di composizione, quindi a Napoli, per circa dieci anni e poi in Sicilia dove concluse la sua attività e si specializzò in notturni dai toni caldi e vigorosi.
Fu allievo dell’Honthorst, ma molto evidenti sono gli esperimenti che egli eseguì sulle illuminazioni artificiali, ove raggiunse una tecnica eccelsa sulla scia dell’esperienza di Rubens, Jordaens e Van Dyck.
Il suo soggiorno napoletano è collocabile dal 1632 al 1641, durante il quale produsse molti dipinti, una parte conservata oggi tra Capodimonte e la quadreria dei Gerolamini.
Il suo stile è talmente caratteristico da far sì che le sue opere si riconoscano a prima vista per gli effetti di luce notturna e di illuminazione artificiale. La sua tecnica rappresenta una sorta di traduzione solidificata dell’impasto con una resa materica degli oggetti e dei panneggi molto accurata ed un prevalere delle tinte bruno rossicce e delle fisionomie raggrinzite ed intense dei vecchi e degli umili, che lo accosta al naturalismo più brutale del Ribera, come nel Sant’Onofrio conservato ai Gerolamini, che costituisce uno dei risultati più alti della sua attività, nella raffigurazione estatica ma serena del santo, giunto al termine della sua vita dopo settant’anni di solitaria meditazione compiuta nella più completa astinenza da qualsiasi richiamo mondano.
Lo Stomer allargò molto a Napoli i suoi orizzonti culturali, recependo varie novità che si manifestavano nella pittura e talune sue opere dimostrano chiaramente lo studio ed i prelievi che egli fece da quadri napoletani prevalentemente dal Vitale.
Giovanni Ricca, documentato nel 1641 per una Trasfigurazione nella chiesa della Sapienza ed al quale di recente è stata restituita un’Adorazione dei pastori firmata a Potenza, in precedenza assegnata ad Onofrio Palumbo, comincia la sua attività artistica sotto l’ala del naturalismo riberesco più tenebroso, per sciogliersi poi lentamente, ma decisamente, nel pittoricismo sotto l’influsso del Van Dyck, la cui cultura viene mediata nell’area napoletana dal siciliano Pietro Novelli detto il Monrealese e da Giovan Battista Castiglione detto il Grechetto.
La sua pennellata rada e veloce, ma stesa con incisività sulla tela ci richiama alle opere del grande fiammingo.
Sua è anche una serie di severe Teste di filosofi, in cui è ravvisabile chiaramente la matrice riberiana, conservate a Capodimonte in piccole tele di forma rotonda, ricordate dalle fonti ed oggi attribuibili al Ricca con certezza, alla luce della migliore conoscenza della sua personalità artistica.
Poche parole per Giovan Giacomo Mannecchia, figlio e fratello di pittori, attivo fino alla fine degli anni Quaranta, anche lui nella chiesa della Sapienza, su commissione della famosa suor Angela Carafa, priora del monastero, con due grosse tele: un’Adorazione dei pastori ed un Miracolo di Cana, firmate e datate.
La sua data di nascita, il 1597, scoperta dal Prota Giurleo, ci fa presupporre che egli possa essere già attivo dagli anni Venti o Trenta, ma mancano i riscontri; infatti di recente sono state identificate alcune sue opere in collezioni private, che hanno permesso di allargare il suo catalogo, ma esse sono da assegnare chiaramente agli anni Quaranta e ci permettono di inquadrare il Manecchia al fianco del Van Somer e del Ricca come tra i primi a raccogliere il messaggio vandychiano di desinenza genovese portato a Napoli dal Grechetto.
Altri importanti allievi del Ribera, prima del 1630, sono i fratelli Fracanzano, pugliesi di nascita.
Cesare Fracanzano, nato nel 1605 a Bisceglie, comincia a dipingere suggestionato dall’ambiente tardo manieristico pugliese come dimostrano i teloni dell’Episcopio di Barletta ed anche giunto a Napoli del naturalismo avrà una visione superficiale ed accademica. I suoi primi dipinti sono il San Giovanni Battista del museo di Capodimonte e le due splendide tele conservate nella quadreria del Pio Monte: Pietà e Guarigione di un indemoniato.
Attratto poi dalle suggestioni pittoricistiche legate alle correnti vandychiane si allontana dal luminismo ed esegue opere come il San Michele Arcangelo nella Certosa di San Martino ed il Cristo confortato dagli angeli conservato nella quadreria dei Gerolamini. Si dedicherà anche alla decorazione imitando i modi lanfranchiani e realizza un ciclo nel coro della chiesa della Sapienza nel 1940 ed uno  nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Conversano.
Aderisce poi ai modelli classicistici desunti dal Reni e giunge ad una maniera delicata con una tavolozza calda e luminosa, come si evince nella tela, firmata, dei Due lottatori conservata al Prado.
Nell’ultima fase della sua attività tornerà in Puglia,  intensificando sempre più gli aspetti pittoricistici ed applicando moduli accademici di derivazione stanzionesca in commissioni a carattere devozionale stancamente ripetute.
Francesco Fracanzano, possiede una personalità artistica più ricca ed articolata del fratello, di cui è più giovane di sette anni ed il suo percorso attende ancora uno studio approfondito che dirima dubbi ed incertezze attributive, soprattutto della fase giovanile. A Napoli sposò la sorella di Salvator Rosa ed ebbe un figlio, Michelangelo, anche egli pittore, il cui catalogo è ancora tutto da definire.
Il Bologna nel ricostruire il suo catalogo gli ha assegnato, tra il 1630 ed il 1632,  una serie di dipinti precedentemente assegnati al Maestro dell’Annuncio ai pastori, dal Figliuol prodigo del museo di Capodimonte all’Uomo leggente del museo Castromediano di Lecce, ma questa proposta non è stata accolta unanimemente, per cui la questione è ancora sub iudice.
La sua prima opera documentata, di recente identificata è il San Paolo eremita e Sant’Antonio Abate della chiesa di Sant’Onofrio dei Vecchi, firmato e datato 1634, di chiara ispirazione riberiana.
Generalmente al 1635 sono collocate le tele con Storie di re Tiridate, conservate nella chiesa di San Gregorio Armeno, anche se per via documentaria debbono essere spostate in avanti di alcuni anni, come già supposto da alcuni studiosi in base a mere considerazioni stilistiche. I dipinti rappresentano senza dubbio il suo capolavoro e sono tra i vertici del Seicento napoletano. In esse il Fracanzano si mostra già padrone di una tecnica matura, con una forza di rappresentazione della realtà che, pur discendendo da Ribera, è però già diluita in un pittoricismo caldo di ascendenza neoveneta e cortonesca. Appartengono a questo periodo d’oro anche altri due dipinti firmati: la Santa Caterina d’Alessandria della sede romana dell’Inps ed il Bacco di Capodimonte, del quale esistono numerose altre versioni autografe tutte di altissima qualità.
Un contatto con l’ambiente dei caravaggisti francesi e fiamminghi operanti a Roma si apprezza in opere come la Negazione di Pietro, in collezione Boblot a Parigi o nella Vocazione di San Matteo di collezione romana, mentre un’altra tela interessante è l’Ecce homo, firmato e datato 1647, in collezione Harris a New York.
Tra le opere pugliesi, da ricordare una serie di Apostoli nel convento di San Pasquale a Taranto.
Negli ultimi anni la sua produzione subisce un’involuzione ed egli si ripeterà con moduli di stanca accademia ad eccezione del Transito di San Giuseppe, eseguito nel 1652 per la chiesa della Trinità dei Pellegrini, nel quale è evidente un rinnovato vigore espressivo.
A cavallo della produzione dei due fratelli la critica ha definito la figura di un Anonimo fracanzaniano sotto la cui etichetta ha raccolto un corpus di quadri, alcuni di notevole qualità, quali il Cristo nell’orto di Pozzuoli, la Scena di cucina di Capodimonte e il San Gennaro azzannato dai mastini della Galleria Borghese di Roma. Tutte tele segnate da una pennellata grassa ed impastata di colore e nelle quali i dettagli del viso e delle vesti sono resi con effetto di superficie violentemente marcato. Progrediti gli studi il catalogo si è svuotato con l’assegnazione di gran parte dei dipinti allo stesso Francesco Fracanzano ed a Nunzio Rossi


Nel solco del naturalismo di lontana matrice caravaggesca e sempre nell’orbita del Ribera sanguigno e dal tremendo impasto è da collocare, tra la fine del secondo decennio e l’inizio del successivo, la comparsa sulla scena artistica napoletana di un pittore dal fascino singolare e dalla tematica originalissima, che gli studiosi collocano sotto il nome convenzionale di Maestro degli Annunci ai pastori dal soggetto di suoi numerosi dipinti conservati in vari musei e raccolte private da Capodimonte a Birmingham, da Brooklyn a Monaco di Baviera.
La critica ha tentato di identificare l’anonimo pittore prima con Bartolomeo Passante, da non confondersi con Bartolomeo Bassante, brindisino di nascita, citato dalle fonti ed autore di due famosi quadri firmati:l’Adorazione dei pastori del Prado ed un Matrimonio mistico di Santa Caterina a Napoli in collezione privata, pittore non eccelso dai modi tra De Bellis ed il Cavallino. In seguito dal De Vito è stato ripetutamente proposto il nome di Juan Do, forzando l’interpretazione di alcune firme poste sotto più di un dipinto dell’ignoto artista. Un’ipotesi che inizialmente aveva raccolto qualificati consensi, ma che ha un punto debole mai sottolineato dalla critica: il pittore amava ritrarsi ripetutamente nei suoi quadri come un vecchio dai folti capelli bianchi, la cui età non corrisponde minimamente a quella del Do, del quale conosciamo vagamente i dati anagrafici. Altre proposte come Nunzio Rossi, sempre avanzata dal De Vito e Beato, fantasticando su una presunta iniziale posta sotto un celebre dipinto, sono assolutamente fuori luogo.
Il Maestro degli Annunci ai pastori va collocato idealmente in quel gruppo di artisti di cui in seguito faranno parte Domenico Gargiulo, Aniello Falcone, Francesco Fracanzano e soprattutto Francesco Guarino, i quali saranno impegnati in un’accorata denuncia delle misere condizioni della plebe, dei contadini e delle classi popolari e subalterne. Una sorta di introspezione sociologica ante litteram della questione meridionale, indagata nei volti smarriti dei pastori, dalla faccia annerita dal sole e dal vento, dei cafoni sperduti negli sterminati latifondi come servi della gleba; immagine di un mondo contadino e pastorale arcaico ma innocente e la cui speranza è legata ad un riscatto sociale e materiale, che solo dal cielo può venire, come simbolicamente è rappresentato dall’annuncio ai pastori, il cui sostrato e l’iconografia religiosa sono solo un pretesto di cui il pittore si serve per lanciare il suo messaggio laico di fratellanza ed uguaglianza.
L’attività del Maestro degli Annunci copre un arco di poco meno di trenta anni, durante i quali vi fu un lungo periodo di vigorosa e rigorosa adesione al dato naturale, spinto oltre i limiti raggiunti dallo stesso Ribera, con una tavolozza densa e grumosa e con una serie di prelievi dal vero, dal volgo più disperato: una lunga serie di piedi sporchi, di calzari rotti e di vestiti impregnati dal puzzo delle pecore.
Sul finire della sua carriera egli addolcì e rischiarò in parte la sua gamma cromatica, dandoci più di un esempio di impreziosimento pittoricistico sotto l’impulso del neovenetismo allora imperante a Roma ed indebolì la sua denuncia sociale. Di questo periodo sono da ricordare l’Atelier dell’artista di recente comparso sul mercato antiquariale con uno spettacolare brano di natura morta, la Morte di Sant’Alessio del castello di Opocno, per finire con la Natività di Maria della chiesa della Pace di Castellammare di Stabia, unica commissione pubblica del maestro, e solo quando eventualmente ne troveremo i documenti di pagamento riusciremo a scoprire la vera identità di questo straordinario artista, tra i massimi del Seicento europeo, che ancora ci sfugge.
Un altro allievo di Ribera è Salvator Rosa, il quale entra nella sua bottega grazie all’interessamento del cognato Francesco Fracanzano, passerà poi in quella di un altro ex allievo Aniello Falcone, quando questi diventa autonomo e vi rimarrà per tre anni.
Dal Ribera egli eredita il vezzo per i tipi volgari, l’amore per le espressioni tragiche e la gioia nel rappresentare le sofferenze umane, mentre dal Falcone recepisce la simpatia per la macchietta e la grande abilità nel dipingere le battaglie.
Presto lascerà Napoli, che rimarrà sempre nel suo cuore e conserverà il suo spirito partenopeo e la sua vena naturalistica, anche quando divenne una delle maggiori personalità del Seicento italiano e l’eco della sua fama percorse fino al Settecento tutta l’Europa.
Nel 1635 si trasferisce a Roma dove ha contatti con l’ambiente dei  Bamboccianti, con Claude Lorrain e Nicolas Poussin e comincia a cogliere del paesaggio il suo aspetto pittoresco. Di questo periodo sono l’Erminia e Tancredi e la Veduta di una baia conservati nella Galleria estense di Modena e l’Incredulità di San Tommaso del museo civico di Viterbo.
Costretto a fuggire da Roma per le sue pungenti recite satiriche sotto la maschera napoletana di Pascariello Formica, nel 1640 il Rosa si rifugiò a Firenze sotto la protezione del cardinale De Medici, in un ambiente culturale di scienziati e letterati nel quale si rinfocolarono le sue ambizioni di umanista e filosofo stoico. Scrive le sue Satire  e viene influenzato da artisti come Jacques Callot e Filippo Napoletano. Il paesaggio naturale, spoglio,  selvaggio e carico di mistero, diventa scenario per la rappresentazione idealizzata di episodi della vita di grandi filosofi e di grandi personaggi storici, come nel Cincinnato chiamato alla fattoria e nell’Alessandro e Diogene, entrambi nella prestigiosa collezione Spencer ad Althorp o nella Selva dei filosofi conservata a Firenze a Palazzo Pitti.
Contemporaneamente dipinge grandiose scene di battaglie che nella loro  monumentalità si risolvono anche esse in solenni rappresentazioni ideali. Uno spirito epico anima le sue tele come una fiamma, una torrida febbre percorre le sue composizioni di grandi dimensioni, dotate di un ricco paesaggio con città sullo sfondo, ruderi di templi ed edifici lontani che smorzano in parte la tragicità delle scene. Nelle mischie furibonde si riesce a cogliere il senso di un dramma cosmico come quello della guerra.
Negli ultimi anni del suo soggiorno fiorentino i suoi interessi artistici si allargano ai temi esoterici della magia e della stregoneria, infatuato dalla cultura magico filosofica di Giovan Battista Della Porta, ricordiamo Streghe ed incantesimi, eseguito nel 1646, alla National Gallery, mentre la sua pittura sempre più scura nei toni si concentra sulla rappresentazione allegorica di temi morali ed idee filosofiche come nella Fortuna conservata al Paul Getty museum di Malibu.
Animo estroso e bizzoso il Rosa fu pittore e disegnatore, incisore e poeta, letterato e polemista, teatrante ed erudito, un personaggio veramente complesso, dal temperamento vivace ed animoso, insofferente della società del suo tempo, sdegnoso del volere dei committenti, ma nello stesso tempo ansioso di essere ammirato.
Tornato a Roma nel 1649 è ambito da facoltosi committenti ed è richiesto dalle maggiori corti europee principalmente per i suoi paesaggi, spesso animati da vivaci figurine ed imitati fino alla fine del Settecento. Lo scenario è spesso quello del sud con le sue rocce ed i suoi panorami aspri e severi, resi con una certa dose di libertà espressiva e di fantasia, che non permette mai di identificare con precisione i luoghi rappresentati. Il fogliame è reso con grande accuratezza e spesso sono presenti le caratteristiche torri di avvistamento presenti in tutte le nostre coste flagellate dalle incursioni dei saraceni. Le figure dei contadini sono riprese nell’atto di animare la conversazione con una gestualità tipica delle popolazioni meridionali. La scelta dei colori cupi ed ombrosi è una costante della paesaggistica rosiana che tende a rappresentare le sue scene al tramonto, per rendere l’atmosfera più raccolta e più intimo il discorrere dei personaggi.
Oltre al paesaggio si dedicò a dipinti di soggetto filosofico e mitologico come l’Humana fragilitas del Fitzwilliam museum di Cambridge e lo Spirito di Samuele evocato davanti a Saul acquistato da Luigi XIV ed oggi al Louvre. Negli ultimi anni della sua attività ritornò al paesaggio, dipingendo una natura spoglia e solitaria come gli eremiti ed i filosofi che l’abitavano.
La maggior parte dei dipinti di Salvator Rosa è conservata dal Settecento in Inghilterra, dove  la sua fama giunse all’apice grazie ad una biografia romanzata scritta nel 1824 da una fervente ammiratrice dell’artista Lady Morgan. Oltre manica egli fu apprezzato più che in Italia e molti videro in lui un precursore di Byron e del romantico ultra pittoresco. L’influsso del pittore italiano sugli artisti inglesi e sulla pittura olandese di paesaggio fu molto grande ed il paesaggio alla Salvator Rosa fu diffuso per molti anni dopo la sua morte grazie ad una serie di epigoni ed imitatori ed acquistò il carattere distintivo di un genere.
L’artista come è noto non ebbe allievi diretti, ma si servì soltanto di aiuti che sbozzavano le sue tele. Il De Dominici indica alcuni nomi come seguaci, mentre il grande successo dell’artista giunse fino al secolo successivo con un corteo di imitatori a volte anche molto modesti.
Notevole fu anche la sua attività di incisore attraverso la quale diffondeva le sue opere e di disegnatore, la cui abilità si apprezza anche per la precisione dei suoi schemi compositivi.
Oggi la critica, pur se ha in parte ridimensionato la figura artistica di Salvator Rosa, comunque gli riserva una posizione significativa nel panorama figurativo non solo italiano ma europeo.
Il costante interesse di Aniello Falcone per la grafica ci testimonia, al di là del racconto del De Dominici, che anche lui fu a bottega dal Ribera per qualche anno prima di divenire a sua volta punto di riferimento certo per numerosi suoi allievi.
Pittore, anzi Oracolo di battaglie, di soggetti sacri e profani, di tele a passo ridotto e secondo le fonti anche di natura morta, il Falcone è una complessa personalità che attende ancora dalla critica una corretta valutazione ed una consacrazione più adeguata al suo ruolo di caposcuola.
Giovanissimo, la sua pittura manifesta elementi di naturalismo di derivazione riberiana combinati con suggestioni derivanti dai Bamboccianti, attivi con successo a Roma, ma notevole è anche l’influenza del Velazquez, che il Falcone conosce a Napoli nel 1630 e dal quale apprende l’essenzialità del racconto ed i sottili giochi di luce sulle armature dei soldati.
Negli anni successivi vi è una svolta nella sua produzione artistica, che si orienta verso il classicismo romano bolognese, per arricchirsi in seguito delle conoscenze della scuola neoveneta, della pittura del Grechetto, delle ricerche del Poussin e per ultimo, inevitabile a Napoli, per risentire dell’influsso di Massimo Stanzione e di Artemisia Gentileschi.
La grande notorietà del Falcone è legata alla pittura di battaglia, un genere che ebbe molto successo a Napoli nel Seicento, con una grande domanda da parte di una committenza laica e borghese ed una benevolenza da parte della Chiesa, con alcuni ordini, come i Domenicani, che richiedono agli artisti dipinti raffiguranti episodi di vittorie della Cristianità contro gli infedeli.
L’Oracolo fu il soprannome che si meritò il Falcone, autore  di un particolare tipo di battaglia senza eroi, estrema personalissima interpretazione del messaggio caravaggesco in cui la mischia è la vera dominatrice della scena, ove si esprime sovrana l’inestinguibile ferocia degli uomini, il tutto espresso con una tavolozza dai colori vivi e marcati, che danno l’impressione che il nostro artista abbia voluto con essi ricalcare l’asprezza dei combattimenti e l’animosità dei cavalieri.
Il suo successo internazionale fu favorito dall’opera di Gaspare Roomer, il suo mercante, grande collezionista d’arte, che inondò l’Europa con le sue battaglie, facendo crescere a dismisura la sua notorietà, il che gli permise di ottenere una prestigiosa commissione di una serie di tele con scene dell’antico mondo romano, oggi conservata al Prado. L’ordine gli fu affidato dal viceré, duca di Medina, per conto di Filippo IV e con lui collaborò la sua bottega quasi al completo: De Lione, Codazzi, Micco Spadaro, De Simone, nonché Cesare Fracanzano. Le tele seguendo un non ben identificato progetto iconografico, rappresentano l’apice del classicismo napoletano e risentono dell’influsso del Poussin e della sua cerchia romana.
Il riconoscimento e l’onore furono pari a quelli ottenuti alcuni anni prima da artisti del calibro di Lanfranco, Stanzione, Romanelli e Domenichino, chiamati ad abbellire il complesso del Buen Ritiro a Madrid.
Nell’ambito della pittura di battaglia molto ancora è il lavoro che la critica deve svolgere per datare con precisione molte tele e per discernere la produzione falconiana da quella di altri famosi battaglisti, quali il suo allievo De Lione, il Borgognone e lo stesso Salvator Rosa.
Tuttora dibattuta è la questione di Falcone pittore di natura morta, che da taluni critici è stata sollevata, a tal punto che in passato si è creduto che potesse essere lui l’artista celato sotto la denominazione di Maestro di palazzo San Gervasio. Oggi questo anonimo pittore è ritenuto non più di area napoletana, per cui cade anche l’ipotesi che possa essere stato un frequentatore della sua bottega. Numerosi sono gli inserti di natura morta che si ammirano nei suoi quadri, anche molto belli come quello celebre del Concerto del Prado.
L’esame dettagliato delle sue opere ci permette di seguire gradualmente lo svolgimento della sua attività artistica.
La Maestra di scuola, già presso le prestigiose collezioni Spencer ad Althorp House e Wildestein a New York ed oggi finalmente a Capodimonte, è forse la sua opera più antica nella quale è tangibile, come già rivelò Longhi, la conoscenza del Velazquez e lo stile dei caravaggisti a passo ridotto.
Di poco successiva la Battaglia del Louvre, datata 1631, costituisce un’autentica silloge della pittura naturalistica del terzo decennio a Napoli.
Dopo il 1635 l’influsso del Grechetto, presente in città, mutò notevolmente lo stile del Falcone, tanto che il suo famoso Concerto fu a lungo creduto opera dello stesso Castiglione.
La Fuga in Egitto del Duomo di Napoli, firmata e datata 1641, ci rivela l’influsso stanzionesco, anzi più precisamente guariniano stanzionesco come ben rivelò il Causa, che nell’Elemosina di Santa Lucia di Capodimonte ravvisò “un unicum della pittura napoletana, quasi un Le Nain di più smagliante e decantata tessitura cromatica, oltre che di ben diversamente marcata qualificazione plastica”.
E poi il Martirio di San Gennaro nella Solfatara, ricordato dettagliatamente dalle fonti, solo da poco ricomparso sul mercato antiquariale ed oggi in collezione privata napoletana. Dipinto di eccezionale qualità, tra i più importanti del Seicento napoletano, per la monumentalità dell’impianto compositivo, per la definizione dei personaggi e per la ricchezza dei particolari.
Abile e prolifico come disegnatore, il Falcone è stato inoltre l’artefice a Napoli di numerose serie di affreschi: nel 1640 lavora nella cappella Sant’Agata in San Paolo Maggiore con risultati stilisticamente vicini alla Battaglia del Louvre; quindi esegue una serie di combattimenti e Storie di Mosè sulle pareti della villa Bisignano a Barra, in passato sfarzosa dimora estiva del suo mecenate Gaspare Roomer, il ricchissimo banchiere fiammingo, mercante di opere d’arte. Ed in tali affreschi, datati al 1647 e di recente riportati all’antico splendore, evidente è l’influsso del Poussin, a rafforzare l’ipotesi, in passato avanzata dalla critica, della presenza ispiratrice di numerosi lavori dell’artista francese nelle più famose collezioni napoletane. Il ciclo di affreschi con la Storie di Sant’Ignazio nella sacrestia del Gesù Nuovo, purtroppo gravemente danneggiati da un incendio del 1963, è collocabile nella piena maturità dell’artista entro il 1652 ed infine recentissima la scoperta nella chiesa di San Giorgio Maggiore, nascosto per quasi tre secoli dietro vecchi teloni settecenteschi, di uno splendido affresco raffigurante San Giorgio che, in groppa ad un cavallo impennato, lancia alla mano, affronta ed uccide il perfido drago.
La bottega del Falcone, in cui dal 1638 si tenne anche una vera e propria accademia di nudo, fu fucina di talenti e frequentata da quella folta schiera di artisti che divennero specialisti nella tematica del martirio dei santi a figure terzine, nei capricci architettonici, nei quadri di paesaggio e di battaglia e, secondo studi recenti, fu importante anche per la nascita e lo sviluppo della natura morta napoletana, perché frequentata oltre che dal Porpora, anche da Luca Forte. Un gruppo molto unito sia sul lavoro che fuori di esso, intrecciato da rapporti di amicizia e di parentela e che, secondo il fantasioso racconto del De Dominici organizzò nei giorni antecedenti la rivoluzione di Masaniello la cosiddetta Compagnia della morte, una setta segreta sorta con lo scopo di vendicarsi degli spagnoli che avevano abusato delle giovani donne napoletane.
Numerosi erano gli artisti che componevano questa allegra e variegata brigata: Andrea ed Onofrio De Lione, Carlo Coppola, Niccolò De Simone, Salvator Rosa, Marzio Masturzo, Domenico Gargiulo, Paolo Porpora, Giuseppe Marullo, Cesare e Francesco Fracanzano, Andrea e Nicola Vaccaro e il bergamasco Viviano Codazzi. I componenti di questo gruppo avrebbero,”armati di spada e di pugnale”, vendicato i torti subiti dalle giovani pulzelle napoletane, mentre di notte”ritirati in casa a dipingere con forza di lume artificiale, per lo quale Carlo Coppola ne restò cieco” (De Dominici).
Il racconto del biografo settecentesco è molto probabilmente inventato o quanto meno esagerato, però testimonia dello spirito di corpo che animava questo gruppo di pittori, che lavorava in un settore non trascurabile della committenza laica cittadina, che richiedeva in gran copia quadri di genere, stanca di soggetti religiosi e devozionali.



Nell’affollata bottega falconiana la prima figura da considerare è quella di Andrea De Lione, famoso battaglista, al quale la critica in tempi recenti ha restituito numerose opere prima attribuite al maestro ed ha reso giustizia del parere negativo col quale era stato definito nel 1938 dall’Ortolani:”un brutto esemplatore di modi corenziani, poi discepolo del Falcone nella forma primitiva, per finire poi seguace del Gargiulo in alcuni paesaggi”.
Egli in vita godette di grande successo e della generale ammirazione e ciò è testimoniato dall’importanza dei suoi committenti, che furono, oltre al famoso mercante Gaspare Roomer, i principi di Sant’Agata, di Tarsia e di Ischitella.
Come pittore di battaglie ancora insufficiente è la datazione del suo catalogo che comprende al momento una trentina di quadri sicuri eseguiti nell’arco di circa mezzo secolo.
I suoi inizi nel genere furono nella bottega del Corenzio autore di maestose composizioni con finalità eminentemente decorative, in seguito aderì alla salda impostazione naturalistica del Falcone, per assimilare poi, a partire dal 1635,  l’estrosa eleganza pittorica del Grechetto, estrinsecantesi in una maggiore libertà espressiva ed in una preziosità della gamma cromatica con colori squillanti dal rosso acceso al giallo spento, con delicati tocchi di verde, bruno e  azzurro.
Un’altra fondamentale differenza coi modelli falconiani, nei quali le spaziature geometriche sono sempre ampie e ben calcolate, è costituita dall’incastro tormentato dei piani e dall’aggrovigliarsi spasmodico delle figure dei contendenti.
Un’opera fondamentale nel suo percorso è la Battaglia contro i Turchi del Louvre, firmata e datata 1641, suddivisa su vari piani espositivi e frazionata in vari episodi.
Precedenti, intorno al 1630 – 35, sono le due tele pendant, siglate, in collezione Nicolis a Torino e la Battaglia con David e Golia conservata a Capodimonte. Contemporanee alla tela parigina sono la Battaglia con due cavalieri in primo piano a sinistra di collezione privata napoletana, già attribuita erroneamente al Falcone ed il San Giacomo alla battaglia di Clavjo, transitata sul mercato antiquariale.
Oltre la metà del secolo va collocata la Battaglia biblica di collezione privata romana, mentre alla piena maturità sono collocabili diversi dipinti contrassegnati da un’impaginazione orizzontale con una contrapposizione tra figure emergenti in primo piano ed una rappresentazione sullo sfondo dell’evento bellico, in rinnovata sintonia con i modi falconiani. Un esempio tipico  di questa fase finale è rappresentato dalla Battaglia tra Ebrei ed Amalachiti del museo di Capodimonte, alla quale va collegata la replica autografa con varianti, di collezione privata napoletana, resa nota dal Sestieri, nella quale “il drammatico impeto barocco degli scontri appare quasi raggelato, con bizzarri effetti di gusto neo manieristico”.
Egli partecipò tra il 1637 ed il 1644 alla nota commissione del viceré di Napoli, il duca di Medina, con opere di grande bellezza come i Quattro elefanti al circo di chiara ispirazione grechettiana.
Celebre il suo Ritratto di Masaniello, firmato, del 1647 e dopo la rivolta il De Lione lascia Napoli e, con ogni probabilità, si trasferisce a Roma, dove fino al 1660 realizza alcuni dei suoi capolavori nel campo delle scene bucoliche, nel quale il Soria lo riconobbe indiscusso maestro. Nella città eterna entra in contatto con il Poussin ed il Bourdon, oltre al Castiglione, già conosciuto a Napoli ed anche egli a Roma dal 1647 al 1651.
I modelli di scene pastorali del pittore genovese sono riletti dall’artista napoletano introducendo una nota classicheggiante ed in questo contesto nascono alcuni capolavori come il Venere ed Adone, firmato, già nelle collezioni Moffo  Lanfranchi a New York e Mondadori a Milano, il Diana alla tomba di Endimione di una raccolta inglese ed il Tobia seppellisce i morti del Metropolitan, a lungo attribuito al Poussin prima che Anthony Blunt lo riconducesse al pennello del De Lione.
In questo gruppo di opere l’imitazione dei modelli del pittore francese è quanto mai accurata: il paesaggio, popolato da rovine classiche, gioca un ruolo di primo piano, in esso si muovono figure che sembrano parenti stretti delle opere più marcatamente neovenete del Poussin e tutta la stesura pittorica mostra una raffinatezza ed una precisione coniugata ad una sensibilità tesa e vibrante, rara in altre opere certe dell’artista.
Il De Lione ebbe una vivace produzione grafica ed una notevole attività come affrescatore, spesso confusa dalla collaborazione con il più anziano e ben più modesto fratello Onofrio: nella chiesa di Monteverginella, in Santa Maria la Nova, in San Paolo Maggiore (dove collabora con Andrea Vaccaro) e nella cappella Galeota del Duomo.
Del tutto recente l’ipotesi avanzata da Federico Zeri di Andrea De Lione pittore di natura morta con l’identificazione di una tela firmata in collezione privata a Ginevra, alla quale possono affiancarsi due dipinti di frutta del museo di Pau in Francia.
L’ipotesi richiede ulteriori conferme anche se nell’inventario del principe di Ischitella, pubblicato dal Pacelli, figurano ben 17 quadri del nostro artista con soggetti di animali.
La complessità della questione è resa più intricata da un passo del De Dominici, che, dopo aver parlato di Andrea De Lione allievo di Belisario Corenzio, cita tra i pittori di natura morta un monsù Andrea Di Lione, cioè uno straniero, famoso per i suoi dipinti di animali ed acquafortista. Il biografo parrebbe alludere a due distinti artisti dallo stesso nome e cognome, una combinazione non rara nella pittura napoletana seicentesca, da Bartolomeo P(B)assante ad Hendrick Van Somer.
Onofrio De Lione, a volte collaboratore negli affreschi di Andrea, fu uno stanco ripetitore di formule corenziane ed arpinati prive di ogni originalità, che rivelano a pieno tutti i limiti culturali dell’artista. Le sue composizioni spesso sono una serie di figure di repertorio assemblate con mestiere senza drammaticità negli atteggiamenti, né impeto, né vigore.
Altro battaglista della cerchia falconiana fu Carlo Coppola, abile anche nelle scene di martirio ed in quadri storici e di vedute.
Impregnato della cultura tardo manierista di Belisario Corenzio egli ebbe due sfere di attrazione: il Falcone ed il Gargiulo. Nelle battaglie gli esempi del suo maestro sono utilizzati come repertorio di immagini stereotipate, mentre nei martirii e nei quadri storici le soluzioni di maggiore libertà pittorica e chiaroscurale del Gargiulo sono molto marcate. Prelievi culturali sono evidenti anche dal Callot, dal Tempesta, dal Compagno e da Andrea De Lione. Fu attivo per circa venti anni dal 1640 al 1660 ed il catalogo delle sue opere, interessanti perché testimonianza di un particolare momento storico e dei gusti della committenza privata, è ancora da definire con precisione, anche se molti suoi lavori sono siglati.
Niccolò De Simone, “geniale eclettico” dalle molteplici componenti culturali, può rientrare nella cerchia falconiana, in parte per il racconto fantasioso del De Dominici, che ce lo descrive partecipante alla Compagnia della morte, ma precipuamente per un evidente rapporto stilistico con la produzione di Aniello Falcone, di Andrea De Lione e di Domenico Gargiulo, da cui prendono ispirazione le sue opere.
Originario di Liegi, come si evince nella sua firma, in passato sfuggita alla critica, sotto il Baccanale di collezione privata genovese, De Simone è documentato a Napoli dal 1636 al 1655 e non al 1677 come erroneamente indicato in tanti testi autorevoli, incluso anche il catalogo sulla Civiltà del ‘600.
I suoi esordi sembrano affondare nella cultura tardo manierista dominata dal Corenzio, in seguito egli nei suoi dipinti, oltre al marchio della cerchia falconiana risente dell’influsso del Poussin e del Grechetto dai quali trae spunto anche per particolari tipi di paesaggio, tematiche preferenziali, fisionomie caratteristiche.
Oggi la critica, grazie ai contributi prima della Novelli Radice e poi della Creazzo, conosce più che bene i caratteri distintivi del suo stile pittorico: anatomie sommarie, tipica concitazione delle scene, caratteristico volto delle donne, tutte mediterranee dai pungenti occhi scuri, assenza di profondità spaziale con bruschi passaggi di scala (evidentissimi nell’affresco dell’Educazione della Vergine), folle in preda ad un’intensa agitazione, cieli tempestosi e baluginanti, squisita sensibilità da espressionista nordico, ripetitività nella costruzione dell’impianto generale della scena, personalissima resa cromatica nell’uso di colori stridenti ed incarnati rossicci.
Il De Simone si dedicò con impegno anche all’affresco e la sua più importante produzione è in Santa Teresa degli Studi, ove la figura della Vergine bambina richiama lo stile di Cesare Fracanzano, mentre gli effetti di luce sulla sua veste sono chiaramente vandychiani e Niccolò per la sua origine nordica dimostra una particolare propensione a recepirne il messaggio.
Molte sono anche le piccole telette a mezzo busto di donne, molte ancora da identificare ed attribuire con precisione, in cui palese è il modulo di riferimento a Vaccaro, Stanzione e Cavallino.
De Simone si distinse anche nel popolare settore delle scene di martirii di santi, che apparve intorno al secondo decennio nelle scenografie del De Nomè e divenne in seguito molto comune nella pittura napoletana con l’evento drammatico che acquista sempre più preminenza rispetto all’ambiente circostante.
Domenico Gargiulo, detto Spadaro dal mestiere del padre, che fabbricava spade, è senza dubbio l’allievo più importante del Falcone nella cui bottega entrò nel 1628.
Molto apprezzato in vita e molto richiesto per i suoi quadri di cavalletto, di recente grazie alla monografia ed alla mostra dedicatagli dalla Daprà, l’artista ha goduto di un rinnovato interesse per la sua multiforme attività e per la posizione che ebbe la sua produzione sul panorama figurativo dell’epoca. In alcuni filoni iconografici infatti, quali le scene di martirio, le favole narrate in figure terzine nei palcoscenici inventati dal Codazzi, nei quadri di storia e cronaca cittadina e principalmente nella pittura di paesaggio è da considerarsi, oltre che un innovatore, un vero e proprio caposcuola, la cui opera troverà epigoni ed imitatori ben oltre il secolo XVII.
Egli amava ritrarre  i tumultuosi avvenimenti della Napoli vicereale: eruzioni, epidemie e rivolte, indagati con occhio attento al più piccolo dettaglio ed alle stesse fisionomie dei protagonisti, inoltre paesaggi intricati e misteriosi rappresentati con rara maestria, angoli suggestivi di rocce, marine brulicanti di barche e pescatori.
Dall’attento studio delle stampe del Callot e di Stefano della Bella, che circolavano nell’ambiente falconiano, prese ispirazione per le sue caratteristiche figurine allungate con la testa piccola e per il modo di assemblare i personaggi nelle composizioni più affollate.
Seppur da collocare tra i minori in un secolo ricco di superstar, bisogna almeno concedergli il privilegio di essere considerato il “Maggiore dei minori”.
La presenza al suo fianco nella bottega del Falcone del giovane Salvator Rosa lo incoraggiò a dipingere i suoi primi paesaggi e le sue prime vedute. Egli inoltre entrò in contatto con la pittura fiamminga ed olandese, che poté conoscere sia a Napoli nelle grandi collezioni private, oppure in un ipotetico viaggio a Roma non documentato. Prende ispirazione dalla cerchia dei Bamboccianti: Cerquozzi, Sweerts e Miel, come certa è la sua conoscenza di Lorrain, Dughet e del giovane Poussin.
Da quest’amalgama nasce il Gargiulo paesaggista, tra i massimi del secolo, con un’attività durata quasi quarant’anni e quindi attraversando tutte le correnti pittoriche dell’epoca dal naturalismo al pittoricismo.
Dal 1635 al 1647 il Gargiulo collaborò col Codazzi, bergamasco, specialista in architetture fantastiche, che il nostro pittore animerà con figurine vivacissime. Un sodalizio durato quasi quindici anni, cementato da una fraterna amicizia, che riscosse un enorme successo tra una folta clientela di collezionisti privati ansiosi di abbellire le proprie dimore con quadri di piccolo formato dei due pittori.
Nel quinto decennio un vicendevole scambio culturale si ebbe tra il Gargiulo e lo Schonfeld, un pittore tedesco che soggiornò a Napoli per oltre dieci anni, specializzato in soggetti biblici e scene di martirio.
Un lungo rapporto di lavoro è documentato tra lo Spadaro ed i frati della Certosa di San Martino: nel 1638 affresca il coro con Scene bibliche e Storie dei Certosini su finti arazzi, in seguito, dal 1642 al 1647, è incaricato di affrescare il Quarto del Priore con una serie di paesaggi in cui si nota l’influsso della pittura nordica. Il Gargiulo continuerà ad avere un rapporto preferenziale con i monaci della Certosa, ove troverà rifugio e salvezza durante la terribile peste del 1656, che decimò la popolazione napoletana e spazzò via un’intera generazione di pittori.
Al termine del calamitoso morbo volle rappresentare lo scampato pericolo in un gigantesco ex voto Rendimento di grazia, ricco di sessantotto personaggi tutti rappresentati con precisione fisionomica, dal cardinale Filomarino allo stesso pittore, che ci fornisce in questa tela il suo unico autoritratto, ai monaci dai volti rubizzi e  giocondi e dallo sguardo stralunato.
Fece parte anche lui, nel 1635, come altri artisti della cerchia falconiana, della grande commissione per abbellire il palazzo del Buen Retiro di Filippo IV a Madrid, ove lasciò più di un dipinto e numerosi disegni, con soggetti di storia dell’antica Roma, oggi conservati al Prado.
Nelle pale d’altare a figure grandi il Gargiulo non si espresse a grossi livelli e nelle poche con certezza attribuitegli dalla critica quali l’Ultima cena del 1641 nella chiesa della Sapienza e la Madonna con Bambino e Santi per Donnaromita è da considerarsi semplicemente un minore stanzionesco.
Ben altra qualità il Gargiulo raggiunge nei quadri di storia e cronaca napoletana, popolati da santi, eroi e gente della plebe, prelevati dalla coloratissima realtà dei vicoli napoletani. Tra questi ricordiamo la Rivolta di Masaniello, Piazza Mercatello durante la peste del 1656, l’Eruzione del Vesuvio, il Largo di Mercato e tanti altri quasi tutti conservati nel museo di San Martino. In tutte queste tele il pittore ebbe modo di manifestare le sue doti di brillante illustratore della vita cittadina ed una partecipazione sentimentale ai destini di Napoli e dei napoletani; il tutto attraverso un uso raffinatissimo e personale di macchie cromatiche, dal denso impasto con una pennellata libera, grassa, estrosa, efficace nel descrivere i tempestosi sentimenti dell’animo umano e lo scorrere ineluttabile degli avvenimenti.
Scampato alla peste il Gargiulo lasciò la Certosa ed il De Dominici racconta che frequentò la bottega di Aniello Mele, commerciante di quadri, dove ebbe modo di frequentare Andrea Vaccaro, Giovan Battista Ruoppolo e soprattutto Luca Giordano da cui trasse alcuni elementi neo veneti, che gli fecero ingentilire la sua pittura, che acquistò colori più luminosi e caldi. Le opere dell’ultimo periodo identificate dalla critica non sono numerose come nei primi anni della sua attività, tra queste la più famosa è la Circoncisione della collezione Molinari Pradelli.
Egli proseguì la sua attività fino agli ultimi anni della sua vita come è testimoniato da una polizza di pagamento del 1670, reperita nell’archivio del Banco di Napoli, in cui il pittore riceve trenta ducati per un quadro raffigurante San Gennaro, di palmi 4x5, forse quello oggi in collezione della Ragione a Napoli.
Alla fine della trattazione sulla vita e sulle opere di Domenico Gargiulo bisognerà cominciare a correggere la sua data di morte, tradizionalmente ritenuta il 1675, da una lettera informativa sullo stato delle arti a Napoli fatta conoscere dal Ceci, che Pietro Andreini inviò al cardinale Leopoldo De Medici, in cui dichiarava che” Micco Spadaro, pittore di figurine e paesi, morì che sono tre anni”. Il Ceci riteneva che tale nota fosse stata inviata nel 1678, ma grazie alle ricerche del Ruotolo (1982) si è identificata la data esatta nel 20 settembre 1675, per cui l’anno della morte deve retrocedere al 1672.
Discepoli ed imitatori il Gargiulo ne ebbe tanti, a giudicare anche dall’enorme numero di quadri che continuamente ed erroneamente gli vengono attribuiti.
Il De Dominici nell’affermare che”lo Spadaro ebbe molti discepoli” si sofferma su quelli ritenuti da lui più significativi: Ignazio Oliva che “imitò il maestro nel fare paesi e marine”, il “superbo” Francesco Salernitano, che “attese alle figure grandi”, Giuseppe Piscopo che dalla bottega di Aniello Falcone era passato a quella di Domenico dedicandosi”alle figure piccole, insino alla misura di circa un palmo” essendo negato per quelle più grandi(di lui il De Dominici non citò alcun dipinto in particolare, affermando invece che piccole “Istoriette e belle tavolette” di Piscopo si potevano trovare in collezioni private); nel cappellone sinistro della chiesa dei Girolamini c’è un dipinto a lui attribuito, datato al 1647, che raffigura i Santi martiri Felice, Cosma Alepanto e compagni. Sembra comunque che l’artista fosse soprattutto pittore di piccole battaglie come le due dipinte nel 1649 per la collezione di Antonio Ruffo a Messina e di soggetti vetero testamentari come il Tobia e l’angelo e la Rebecca al pozzo ricordati nel 1725 nell’inventario della collezione di Francesco Gambacorta duca di Limatola. Ed infine Pietro Pesce, “che ne conseguì tutti i generi e modi” e del quale la critica ha identificato alcune sue opere firmate, di recente passate ad un’asta Finarte a Napoli, di ambientazione notturna, come ne erano presenti altre nella raccolta del principe Ettore Capecelatro identificate in un inventario da Labrot.
Collegata alla produzione del Gargiulo nel quinto decennio del secolo è l’attività di Heinrich Schonfeld, uno svevo dalle raffinate qualità pittoriche, in passato spesso confuso con Cavallino e con lo stesso Spadaro, capace di squisite preziosità di luce e di colore, nelle calde tonalità del giallo, del rosso vivo e del rosa, presente a Napoli tra il ’38 ed il ’49, dopo aver soggiornato a Roma dal 1633.
Impregnato dell’ambiente tardo manieristico tedesco, egli porta in Italia l’esperienza dei fiamminghi italianizzati Poelemburg e Swanevelt e quando giunge a Napoli è ancora permeato della cultura romana di impronta classicistica.
Comincia col dipingere soggetti derivanti dal Vecchio Testamento, dalla storia antica e dalla mitologia, quindi trae ispirazione come il Gargiulo dalle stampe del Callot per i quadri di battaglia e per le scene di trionfi. Lentamente si napoletanizza curando l’effetto scenico ed il dinamismo della composizione.
Intorno al 1643 – 44, a seguito di una crisi religiosa, dovuta ad alcuni gravi incidenti che gli fanno perdere un occhio e l’uso di una mano, viene attratto irresistibilmente dalla pittura religiosa ed egli, che è di confessione protestante, rimane infatuato dalle tematiche cattoliche, con un predilezione per i soggetti relativi alla morte, alle scene di martirio ed alla fugacità dell’esistenza.
Sono di questo periodo la Morte di Santa Rosalia di Augsburg ed i due martirii di Marianella conservati nella casa natale di Sant’Alfonso de Liguori. La sua tavolozza vira verso i colori cupi del grigio, del marrone e del viola ed il taglio della luce diviene caravaggesco. La pennellata è nervosa, le figure dai lunghi colli, danno una sensazione di fragilità e leggerezza.
Negli ultimi due anni della sua permanenza a Napoli prima di ritornare in Germania, attraverso una nuova sosta a Roma, lo Schonfeld abbandona la sua fase mistica e ritorna a composizioni dal gusto teatrale con una tavolozza luminosa grondante di colore, aderendo al neo venetismo emergente nella realtà figurativa napoletana ed elaborandolo in modo personale nelle sue opere, che saranno prodotte dopo il suo ritorno in patria nel 1650.


Altro artista strettamente legato al Gargiulo è Viviano Codazzi, bergamasco, presente a Napoli dal 1634 al 1647, fraterno amico e collaboratore dello Spadaro, con il quale esegue numerosi lavori a due pennelli. La loro collaborazione è ricordata dal De Dominici che erroneamente lo indicava come Codegora: ”Moltissimi sono in Napoli i dipinti con architetture dell’eccellente Viviano, e con figure di Micco Spadaro…vissero questi due virtuosi insieme con tanto amore che la morte solo poté separarli”.
L’Ortolani, dispregiandone l’opera, definì il Codazzi un “ mediocrissimo pratico”, ma in seguito la critica, prima attraverso le ricerche di Longhi e della Brunetti, e poi con la recente esaustiva monografia del Marshall, ha rivalutato appieno il suo lavoro ed ha riconosciuto l’importanza delle sue architetture luminose e ben disegnate e dotate di effetti di profondità spaziale e volumetria ben dosate.
La sua conoscenza dei monumenti romani fa presupporre una lunga permanenza a Roma, prima della sua venuta a Napoli; un periodo di studio, come era abitudine all’epoca di tutti i pittori, probabilmente nell’ambiente di Agostino Tassi e della sua bottega. Giunto a Napoli nel 1634, dopo poco si sposa con una napoletana ed entra in contatto con gli artisti della cerchia falconiana e ciò è testimoniato dalla sua partecipazione, nel 1639, col Gargiulo, il Falcone, il De Lione, De Simone e Cesare Fracanzano alla stesura delle grandi tele di soggetto romano destinate al palazzo del Buen Retiro di Madrid. Entra poi in contatto col suo conterraneo Cosimo Fanzago, che lo proteggerà e lo farà lavorare alle grandi prospettive per la chiesa e la sacrestia nella Certosa di San Martino, che in quel periodo è una vera e propria palestra per gli artisti napoletani.
Oltre ad una proficua collaborazione col Gargiulo egli nella Certosa lavora ad un originale Colonnato con delle scale che farà da sfondo alle figure di Massimo Stanzione in un Cristo che esce dalla casa di Pilato nella sacrestia della chiesa.
Ricordata dalle fonti, anche se messa in dubbio dalla critica, una sua collaborazione al grande affresco della Probatica piscina eseguita dal Lanfranco ai Ss. Apostoli.
Al periodo della rivolta di Masaniello nel 1647, il Codazzi lasciò Napoli per Roma, ove cominciò a collaborare col Cerquozzi.
Capolavoro di questo sodalizio è, del 1648, la Rivolta di Masaniello, commissionata dal cardinale Spada, una delle più lucide interpretazioni della celebre sollevazione popolare.
Egli, pur risiedendo a Roma, non dovette rompere del tutto i contatti con Napoli, come testimonia il suo rientro documentato nella capitale vicereale nel 1653 ed il ritrovamento di quadri datati oltre il 1647, in cui è evidente la collaborazione col Gargiulo rimasto a Napoli, come ad esempio nella splendida tela Davanti ad una locanda del museo di Baltimora.
A Roma collaborò inoltre saltuariamente anche con Jan Miel, Giacinto Brandi e con Filippo Lauri. Il riconoscere la mano del figurinista permette alla critica un preciso inquadramento cronologico del dipinto in esame.
A Napoli seguiranno le orme del Codazzi Francesco Magliulo ed Ascanio Luciano, quest’ultimo ritenuto un suo seguace dall’Ortolani e dal De Rinaldis e a sua volta precursore di Leonardo Coccorante e di Gaetano Martoriello, i grandi paesaggisti della successiva generazione.
Di Francesco Magliulo conosciamo ben poche notizie. Il D’Addosio reperì nell’Archivio storico del Banco di Napoli una polizza di pagamento del 1666 nella quale si riferiva che il pittore era capitato nelle grinfie di uno di quei mercanti d’arte, che lo faceva lavorare a mesata in casa sua sfruttandolo. Dal documento si evidenzia anche che il Magliulo fosse abile nel dipingere le figure oltre che le prospettive architettoniche. L’Ortolani segnalò un suo dipinto di rovine già in collezione Messinger a Monaco ed oggi ad ubicazione sconosciuta, nel quale l’Ozzola aveva chiaramente identificato la firma dell’autore ed aveva ritenuto il pittore allievo del Ghisolfi a Roma. Ed infine nel 1993 presso Sotheby’s è passata una tela con  Cristo che scaccia i mercanti dal tempio ambientata tra antiche rovine per la quale il Marshall ha suggestivamente proposto il Magliulo come autore.
Ascanio Luciano fu uno specialista nel genere delle rovine monumentali, dipinte in piena luce solare o sotto un bel chiaro di luna, molto richiesto all’epoca dai collezionisti, che utilizzarono questi quadri per decorare le ampie antisale dei loro nobili appartamenti. Vi era anche una certa richiesta da parte degli stranieri, che, in ricordo delle pittoresche ed imponenti rovine da essi ammirate nei dintorni di Napoli, amavano portarsi nei loro tristi e nebbiosi paesi un po’ del nostro sole e il ricordo dei nostri monumenti.
I dati biografici sono scarni: nato a Napoli nel 1621, nel 1665 risulta iscritto alla Congregazione dei pittori dei Ss. Anna e Luca, vive a lungo fino al 1706, avendo modo così di trascorrere tutta la stagione del barocco napoletano.
Disprezzato dall’Ortolani, che lo definisce mediocre discepolo di Viviano Codazzi, è viceversa trattato con passione dal De Rinaldis che gli dedica un articolo elogiativo nella leggendaria rivista Napoli Nobilissima. La critica moderna gli riconosce, di volta in volta che si scoprono nuove tele spesso firmate, una posizione preminente nel campo dei capricci architettonici ove svolse un ruolo di cerniera tra il Codazzi e il De Nomè  e gli specialisti settecenteschi del genere.
Egli elabora un tipo di composizione in cui gli elementi architettonici, quasi sempre rovine, sono immersi in un paesaggio, spesso marino, dal vasto orizzonte e di buona fattura. Le sue architetture hanno una luce irreale, sfumante in un’atmosfera lirica, con un gusto marcato nel ricalcare la decorazione scultorea, derivante dallo stile fantasioso del De Nomè.
Molto curato è l’aspetto paesaggistico con aperture di rara bellezza, come il maestoso Rovine di un edificio classico presso una costa eseguito in collaborazione con Luca Giordano, con il quale il Luciano aveva eseguito anche la grande tela di Cristo e l’adultera, esposta alla celebre mostra sulla pittura italiana di Palazzo Pitti nel 1922 ed oggi in collezione privata milanese.
Altre opere famose a lui attribuite sono la Veduta della Vicaria del museo di San Martino, eseguita in una accezione molto vicina ai modi pittorici del Coppola ed il San Pietro che risana lo storpio della collezione Molinari Pradelli, in cui le allungate figurine derivano direttamente dal Gargiulo. Un’opera tarda del Luciano, che ci permette di riconoscere il suo stile nella maturità, è l’originale dipinto Scene di melodramma entro ruderi antichi, nel quale è presente forse anche l’autoritratto del pittore ed oltre all’influenza di Giacomo Del Po si evidenzia, come ha sottolineato il Lattuada, un’allusione al mondo teatrale, rendendo plausibile un’esperienza nel campo della scenografia e stabilendo un ponte tra l’esperienza della pittura e quella del teatro.
Di Marzio Masturzo le poche notizie che abbiamo intorno alla sua vita ne fanno risalire l’apprendistato prima presso Paolo Greco, zio di Salvator Rosa, e poi nella bottega di Aniello Falcone insieme al Mercurio e allo stesso Rosa.
Lo stretto rapporto che lo legava al Rosa lo spinse a seguirlo a Roma, dove ne divenne fedele imitatore. Il De Dominici ci narra, probabilmente attingendo a qualche leggendaria tradizione, che il Masturzo dipingeva dal vero in compagnia del Rosa e del Gargiulo, divenendo un così perfetto imitatore da venir scambiato per lo stesso Salvator Rosa. Il biografo, che dedica all’artista ben due pagine, si peccava di saperli distinguere, identificando il maestro per quel ”bel tocco di colore adoperato con bizzarria”.
Una sua splendida battaglia, documentata negli inventari, è presso la Galleria Corsini a Roma. Spesso in aste nazionali ed internazionali compaiono dipinti attribuiti al Masturzo, ma bisogna essere molto cauti perché il catalogo dell’artista è ancora tutto da definire ed in esso potrebbero confluire due tele siglate MM, una presente sul mercato antiquariale di Milano e l’altra in collezione privata a Reggio Emilia, entrambe studiate e pubblicate dal Sestieri.
Altro scolaro del Falcone è Perez Sciarra o Sierra, nato a Napoli da padre spagnolo, specializzato in battaglie, bambocciate e fiori. Tornato in Spagna collaborò con Juan De Toledo, il noto battaglista, ben rappresentato al Prado.
Giuseppe Trombatore fu a bottega dal Falcone per alcuni anni, quindi le fonti affermano che dal 1656 al ’60 passò alla scuola di Mattia Preti, dove si specializzò alla fine come ritrattista e fu attivo almeno fino al 1685, data di una polizza di pagamento in suo favore.
All’artista si può assegnare, per il monogramma TG ben visibile sulla coscia del cavallo a sinistra, l’Assedio, già nella collezione del barone Carelli a Napoli, una tela creduta dal De Rinaldis del Falcone, un pittore al quale il Trombatore si ispirava, come sottolineò l’Ortolani, che, pomposamente parlava di groppa del cavallo”sfericamente plasticata dalla luce”.
Si dovrebbe ora parlare di Paolo Porpora e di Luca Forte, sicuri frequentatori della bottega del Falcone, ma di loro parleremo diffusamente nel capitolo sulla natura morta.
Il cosiddetto Maestro dei martirii è una personalità ancora misteriosa dai contorni ancora non ben definiti, collocabile tra i modi pittorici di Scipione Compagno e di Carlo Coppola e cronologicamente attivo intorno al quarto decennio del secolo, il cui corpus pittorico ancora esiguo è prodotto escludendo l’attribuzione di scene di martirio ad artisti dai caratteri più riconoscibili dalla critica.
Ignazio Compagno lavorava nella bottega del fratello Scipione ed era specializzato nelle repliche di soggetti richiesti dalla committenza e, secondo il De Dominici, era particolarmente versato nell’esecuzione delle figure grandi.
Il Salerno ha ipotizzato una sua partecipazione nei quadri del fratello, perché nel catalogo di questi sono presenti quadri di impostazione ed esecuzione diversa, che, se non dipendono da un’evoluzione stilistica dell’artista, possono presupporre l’intervento di un collaboratore.
Scipione Compagno nasce secondo lo Zani nel 1624 e muore dopo il 1680, è documentato tra il 1638 ed il 1644. Il De Dominici lo cita come pittore di paesaggi e di marine, una veste nella quale ci è ancora sconosciuto. Egli è influenzato dai modi del Corenzio e di Filippo D’Angeli e mostra inoltre il marchio delle architetture fantastiche del De Nomè, oltre a risentire dell’impronta del Brill e di pittori olandesi come Breenbergh e Polenburgh. Il Causa, dal carattere arcaico delle sue scenografie, aveva ipotizzato che egli appartenesse alla generazione precedente a Micco Spadaro, ma i documenti ed i dati anagrafici scoperti di recente hanno dimostrato che trattasi di pittori coevi.
Anche per il Compagno la massa anonima diventa la protagonista dei suoi quadri nei quali è abile a collocare gran popolo in poco spazio e ad immergere gli avvenimenti in un’atmosfera fantastica e surreale.
Fino agli anni Settanta gli erano riconosciute poche opere, poi il Salerno ritenne di aggiungere al suo corpus tutto il gruppo di dipinti che il Longhi, riconoscendone la stessa mano, aveva attribuito a Filippo Napoletano, di cui allora poco si conosceva.
Nel suo catalogo così ampliato, con l’aggiunta di varie tele firmate, si possono distinguere chiaramente due tendenze, che come abbiamo detto in precedenza hanno fatto ipotizzare la mano di due diversi pittori, una caratterizzata dai colori chiari e dall’esecuzione più accurata, l’altra di un fare sciolto e compendiarlo, con impasti cromatici più sostanziosi e con una tavolozza di colori più scuri.
Le sue opere di maggior successo furono più volte replicate, spesso su rame ed alcune sono molto suggestive come l’Eruzione del Vesuvio del 1631 del Kunsthistoriches di Vienna, nella quale oltre all’interesse documentario per un luogo famoso della città di Napoli oggi scomparso, molto ben rappresentata è la folla formicolante in preda al panico, espressa con una vivacità di tocco rara a vedersi negli altri specialisti del genere.
La sua produzione anche se inferiore qualitativamente e quantitativamente a quella del Gargiulo, a cui può essere paragonato, esercitò ad ogni modo un influsso su altri pittori tra cui Nicola Viso ed il tedesco Franz Joachim Beich, presente a Napoli all’inizio del Settecento.
Dopo aver vagliato la personalità di due grandi specialisti nella pittura di paesaggio come Salvator Rosa e Domenico Gargiulo, non si può trascurare la complessa ed ancora sfuggente personalità di Filippo D’Angeli, detto Filippo Napoletano, il più antico di tutti, precursore ed autentico creatore del vedutismo locale, ricordando che il Filippo D’Angeli ricostruito dal Chiarini è una personalità diversa dall’artista ipotizzato dal Longhi, che raggruppò una serie di tele che denotavano la stessa mano, confluite poi nel catalogo di Scipione Compagno.
Egli nasce a Napoli nel 1587, secondo il Mancini ”di padre spagnolo e di madre romana” e soggiornò nella capitale vicereale fino al 1614. Attraverso il Sellitto ebbe modo di venire a contatto con tutta la folta schiera di nordici, dal Cruys al De Nomè, attiva in città e che tanta parte ebbe nella sua formazione artistica.
Da questi pittori derivò il carattere nordico della sua cultura figurativa, tra cui l’attenzione al dato naturale del paesaggio, il tipo di taglio compositivo e la particolare resa della luce. Con i modi pittorici di questi artisti, come con quelli di Elsheimer e Brill, conosciuti a Roma e Breembergh e Poelemburgh, conosciuti a Firenze, si possono apprezzare stringenti assonanze non solo tematiche, ma anche stilistiche.
Nel 1617 Filippo Napoletano fu chiamato a Firenze da Cosimo II e lì egli sviluppò un nuovo tipo di paesaggio realistico ricco di effetti tonali, dai colori brillanti e creò numerose tele con soggetto fluviale o campestre, animate da vivaci figurine rese con straordinaria freschezza.
Secondo il Mancini, biografo ed estimatore dell’artista, “si applicò precocemente a tutta una serie di generi: composizioni d’historie, battaglie, scene di martirio e simili”. Da collocare a questo periodo è anche la sua produzione di natura morta, ignorata dalle fonti e di recente restituitagli attraverso il rinvenimento di un Rinfrescatoio nei depositi di Palazzo Pitti, già segnalato in antichi inventari medicei citati da Longhi nel 1957. Del  periodo fiorentino sono altre nature morte: Due cedri e Due conchiglie derivanti dagli interessi scientifico naturalistici maturati in Filippo Napoletano a seguito delle richieste da parte del celebre medico Giovanni Faber, amico di Galilei, che fece da tramite con il pittore, di allestire una serie di scheletri e di preparati botanici per finalità didattiche. Questi scheletri, rappresentati in maniera originale tra lo stregonesco ed il fantastico, esprimono una tendenza del tutto aliena alla cultura figurativa italiana ed ebbero sicuramente un influsso su Salvator Rosa, presente a Firenze dal 1640 al 1649, che dovette trarne spunto per la sua folta produzione di stregonerie, oltre ad apprezzare tutto ciò che di partenopeo era percepibile nella pittura di Filippo, tra cui principalmente un linguaggio accuratamente aderente alla realtà.
Dopo la morte di Cosimo II nel 1621, Filippo si trasferì a Roma, ove soggiornò fino alla morte avvenuta nel 1629, ad eccezione di due anni trascorsi a Napoli dal 1624 al ’26. Durante gli anni trascorsi nella città eterna egli eseguì dal vero alcuni paesaggi molto importanti per la formazione dei paesaggisti italianizzati come Jan Both.
La critica negli ultimi anni sta delineando con sempre maggiore precisione la sua personalità artistica, che risulta rilevante nei riguardi della cultura figurativa della prima metà del Seicento non solo di Napoli, ma anche di Roma e di Firenze.

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