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giovedì 22 marzo 2012

Parliamo di morte

2/4/2008

Non amiamo parlare della morte, ci infastidisce solo il pensiero, ci comportiamo come se si trattasse di un argomento che non ci riguarda, siamo così impegnati a lavorare, ad occupare ogni istante di tempo libero, a divertirci, a viaggiare, sempre di fretta, senza un momento di sosta per meditare sull’epilogo della nostra vita.
Oggi più di ieri temiamo la morte, l’ultimo tabù che ci è rimasto dopo aver distrutto tutti gli altri, dal sesso all’amor patrio, che ci attanagliavano da tempi lontani. 
La nostra società, profondamente secolarizzata, vuole allontanare l’idea della fine della nostra vita terrena, perché è un pensiero che ci induce ad esacerbanti esercitazioni metafisiche sul motivo della nostra esistenza, sul nostro destino, su Dio.
Oggi nelle grandi città si muore in assoluta solitudine, in punta di piedi, per non turbare il frenetico girotondo di chi rimane; negli stessi ospedali i morituri vengono ghettizzati in reparti di pseudo rianimazione o per malati terminali. Non sono in condizione più di dominare o quanto meno controllare le tremende emozioni che accompagnano il momento del trapasso. Pochi, anche i parenti più stretti dedicano loro soltanto qualche visita frettolosa, perché nessuno è più in grado di sussurrare quelle dolci parole di cui hanno bisogno, nessuno sa più stringere quelle mani tremanti per infondere coraggio e rassegnazione.
Soltanto in qualche sperduto paesello, dove si conservano ancora dialetto e forti legami sociali, la morte viene onorata, recitata, rappresentata come un grande dramma collettivo al quale tutti partecipano, facendosi depositari della memoria del defunto. Un cerimoniale commosso e corale inimmaginabile nelle affollate città dove disperdiamo tutto e non abbiamo tempo né per la memoria né per il dolore.
Nel medio evo la morte era viceversa accompagnata da un grandioso apparato rituale, nel quale i sentimenti venivano incanalati e sublimati.
L’uomo moriva davanti a tutti, se ricco oltre ai parenti si raccoglievano attorno al letto i servi e gli abituali frequentatori della casa, se povero erano presenti moglie e figli anche se bambini, i quali spesso in coro recitavano candide preghiere.
Negli ultimi istanti una sensazione miracolosa dava al moribondo la forza di dare l’addio, chiedere e concedere il perdono, dispensare consigli ai più giovani che venivano accolti con un’autorevolezza fino ad allora sconosciuta.
Il suo corpo non si allontanava molto dalla casa, trovando ospitalità nelle chiese o in luoghi posti dentro le mura urbane. Poi leggi severe hanno collocato i cimiteri lontano dalle città e noi da allora li visitiamo raramente, come rifiutiamo quei cerimoniali pomposi impregnati di esequie, di lutto, di estremo cordoglio, di orpelli funerari.
Ora che abbiamo abbandonato questi antichi rituali protettivi e consolatori la morte ci devasta maggiormente, facendo scempio delle nostre certezze, che ci illudevamo fossero incrollabili. La scomparsa di una persona cara, con la quale abbiamo vissuto a lungo condividendo gioie e dolori, ci sconvolge, lacerando per sempre la nostra esistenza e strappandoci la gioia di vivere. Essa continua a vivere soltanto nel nostro ricordo dove vi è spazio per un’immortalità surrogata. 
Per il credente la morte è un fardello più tollerabile, mentre per il laico rappresenta un angosciante salto nel buio.
Nulla si crea e nulla si distrugge” è uno dei paradigmi della scienza ed anche il nostro corpo dopo la morte, disintegrandosi, ritorna nella terra e restituisce le sostanze della sua materialità. Ma i nostri pensieri, i dolori, le speranze, la felicità, gli smarrimenti, le malinconie, i ricordi, i desideri, gli affetti, non vogliamo dire la nostra anima, dove finiscono? Se nulla si distrugge, se la nostra misera carcassa continua ad esistere trasformandosi, perché ciò che a noi continua a sembrare immateriale dovrebbe scomparire.
Una modesta radio a transistor è in grado di captare le voci provenienti dall’altro emisfero terrestre, ci permette di ascoltare un monologo di Amleto recitato a New York o il ritmo di una frenetica danza brasiliana da Rio, il cervello dell’uomo è la cosa più prodigiosa che vi sia nell’universo, perché non possiamo credere che esso  possa afferrare i nostri sentimenti, che vagano nello spazio dopo la nostra morte? Un bambino che oggi nasce potrebbe raccogliere un messaggio di uno sconosciuto che chiude la sua esistenza e gli lascia in eredità le sue inquietudini, le sue speranze, le sue gioie ed i suoi dolori.
Milioni di uomini di antiche e sagge civiltà, hanno creduto e credono a questa possibilità, anche noi possiamo crederlo, sperarlo, temerlo. 
Sono pensieri che ci danno l’idea della nostra miseria e della nostra nobiltà: sperduti nell’infinita immensità degli spazi, destinati a vivere un lampo a confronto dell’eternità, non riusciamo a credere che la nostra coscienza si sia accesa per caso, a contemplare un universo ostile o quanto meno indifferente al nostro destino.

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