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sabato 17 marzo 2012

L’embrione tra etica e biologia

20/9/2006


Fino al 1978 in Italia vigeva una legislazione sull’aborto regolata dalle norme del codice Rocco, una triste eredità del fascismo, che prevedeva, a salvaguardia dell’integrità della stirpe, pesanti sanzioni penali per il medico e per la stessa donna che si sottoponesse alla I.V.G.
Nessuna eccezione era prevista e questa normativa restrittiva accomunava l’Italia ai paesi più arretrati culturalmente del terzo mondo.
Dopo un parere parzialmente permissivo della Corte costituzionale emanato nel 1975, grazie alle vigorose provocatorie campagne portate avanti dai radicali, che organizzarono anche una struttura, il Cisa (Centro italiano sterilizzazione aborto), in cui le donne stesse intervenivano attivamente applicando il semplice metodo Karman, il parlamento partorì faticosamente una legge, la 194, che regolava in maniera più moderna la spinosa e dibattuta materia. 
La legge 194 del 22-5-78 ha radicalmente cambiato la normativa che regola in Italia l’interruzione della gravidanza (I.V.G), permettendo l’esecuzione della stessa nei primi novanta giorni di gestazione in una casistica molto ampia di casi, che vanno dalle indicazioni mediche a quelle sociali e psicologiche.
«È una tra le leggi più liberali al mondo, che si basa esclusivamente sulla volontà della donna, con ben poche restrizioni, anche se è inficiata dalla nascita da un grave peccato originale: l’ipocrito compromesso tra forze di sinistra e cattolici, frutto dell’ambiguo clima politico dell’epoca, che ha prodotto l’aborto giuridico di considerare lecita una prestazione eseguita in ambiente ospedaliero e nelle pochissime cliniche private convenzionate e reato grave la stessa prestazione, se effettuata in uno studio privato, anche se attrezzato meglio di una struttura pubblica» (della Ragione A., Pianeta donna, p. 9, Napoli 1999).
Nel 1981 due referendum abrogativi, uno sollecitato dall’area cattolica, la quale mirava a sradicare la legge abolendo completamente i risultati conquistati ed uno portato avanti dall’area radicale, che desiderava realizzare una piena depenalizzazione dell’aborto, furono portati all’attenzione del corpo elettorale che, con diverse percentuali li respinse entrambi.
La legge ha avuto sempre una parziale e difficoltosa applicazione soprattutto nel sud del paese, per gli ostruzionismi che larghe fette del potere hanno costantemente esercitato, dagli obiettori di coscienza, finti o veri che fossero, agli amministratori delle U.S.L. democristiani, agli assessori alla Sanità pilateschi che cercavano ogni cavillo per affossare la legge e solo la vigile attenzione esercitata dalle donne di ogni ceto sociale e di ogni area politica ha fatto sì che una applicazione della normativa, anche se stentata, non abbia mai subito interruzioni.
Il ricorso all’aborto, fuori dagli ospedali è fortemente diminuito, anche se non ho mai capito perché si continui pervicacemente a chiamare clandestina e non privata una I.V.G. realizzata fuori dalle strutture pubbliche, come se una donna che dovendosi sottoporre ad una appendicectomia non sia libera di scegliere tra il ricovero in ospedale o il ricorrere al suo medico di fiducia; ciò che è logico e lecito per ogni prestazione medica è considerato reato esecrabile unicamente per l’interruzione volontaria della gravidanza se realizzata fuori delle strutture pubbliche!
Le preoccupanti motivazioni demografiche che erano state uno dei motivi che avevano indotto il Parlamento ad approvare la legge 194 sono oggi venute meno.
L’Italia negli ultimi venti anni è divenuta infatti il paese che presenta il più basso indice di nascita per donna del pianeta, l’1,1 quando sarebbe necessario un valore superiore a 2 nascite per donna per rimpiazzare semplicemente la popolazione.
Questa situazione è simile in tutto l’Occidente, mentre è diametralmente opposta nelle nazioni del terzo mondo.
Questa variazione della situazione demografica, unita al mutato quadro politico, ha dato più volte fiato ai gruppi che si agitano per l’abolizione della legge 194 o per svuotarla di contenuto e operatività.
Il crollo della fertilità della nostra popolazione è fenomeno complesso e di esso molti parametri sfuggono ancora completamente all’indagine scientifica, ma deve anche far riflettere per le gravi implicazioni di ordine sociale che nel giro di uno o due generazioni saremo costretti ad affrontare.
Nel 1978, nel chiudere l’ultima pagina di un mio libro sull’argomento, riflettevo su alcune motivazioni di ordine demografico, le quali obbligavano ad accettare l’ampio ricorso all’aborto, che oggi francamente non mi sentirei più di condividere in pieno.
«Lo sviluppo demografico indiscriminato della popolazione mondiale rappresenta senz’altro il più grosso pericolo che incombe oggi, come una spada di Damocle, sull’umanità e ne pregiudica, se non risolto adeguatamente, ogni possibilità di sviluppo futuro. La soluzione di questo problema, oltre che nella buona volontà degli uomini è incentrato sulla diffusione capillare e nello sviluppo di tutte le metodiche contraccettive attualmente conosciute e nello studio di nuove, sempre più semplici ed efficaci.
In attesa che tale auspicio venga realizzato esiste però il dramma quotidiano dei singoli individui e delle nazioni, soprattutto del terzo mondo, afflitte dalle diseguaglianze sociali, dalla povertà, dall’ignoranza e dai tabù.
L’aborto rappresenta a volte la soluzione temporanea di molti di questi problemi, ma rappresenta sempre il frutto di una decisione sofferta ed a volte traumatizzante.
La scienza e la politica debbono lavorare insieme per dare a tutte le coppie la possibilità di programmare con serenità la propria vita riproduttiva, cosicché in un futuro speriamo prossimo, ogni bambino che nascerà sarà stato desiderato ed atteso con amore e possa vivere la sua vita con il rispetto e la dignità dovuti ad ogni essere umano». (della Ragione A., Moderne metodiche per provocare l’aborto, p. 161-162, Napoli 1978).
In Italia per motivi di opportunismo ed equilibrio politico ancora non sono state utilizzate metodiche farmacologiche per indurre l’I.V.G. a differenza di altre nazioni, Francia in testa, dove sono in uso da oltre 10 anni.
Abbiamo un’esperienza specifica con l’uso di una associazione farmacologica di nostra ideazione, sperimentata per oltre un anno in ambiente ospedaliero (Contraccezione, fertilità sessualità, vol. 18, n. 4, luglio 1991 e Idem., vol. 19, n. 3, maggio 1992) ed abbiamo constatato che l’utilizzo di una metodica non chirurgica è molto gradita dalle pazienti.
Il gravoso problema della obiezione di coscienza tra il personale medico e paramedico ospedaliero potrebbe essere alleviato dall’applicazione di metodiche farmacologiche, perché è auspicabile che le donne possano introdurre da sole in vagina le candelette di prostaglandine o assumere una compressa ed in tal modo, finalmente, dell’aborto non dovrebbero più interessarsi legislatori e preti, medici ed assistenti sociali, e questa scelta, difficile e quasi sempre dolorosa, spetterebbe unicamente alla donna e alla sua coscienza.
Sull’annosa querelle dell’aborto si innestano le più moderne riflessioni sulla definizione di uno statuto ontologico per l’embrione, sempre in bilico tra considerazioni etiche e conoscenze biologiche.
Si parla poco e mal volentieri di questo argomento sui grandi organi di informazione, un po’ per un inconscio desiderio di rimuovere il problema, ma anche perché fino ad oggi voci autorevoli di scienziati, filosofi ed opinionisti se ne sono sentite ben poche esprimersi sull’argomento. Viceversa è una problematica la cui discussione non può essere più differita, perché tocca non solo l’aborto, ma anche la fecondazione in vitro, la sperimentazione sugli embrioni e tante altre questioni sollevate dal vertiginoso progredire delle conoscenze scientifiche.
Bisogna cominciare a riflettere sulla prevedibile circostanza che quella dei nostri figli sarà l’ultima generazione che si riprodurrà in maniera tradizionale; la successiva, gradualmente, usufruirà certamente delle tecniche di fecondazione assistita e tutto lo sviluppo dell’embrione avverrà fuori dal corpo delle donne.
Per evitare che future commissioni bioetiche decidano per noi come debbano avvenire le cose, è opportuno che si cominci a discuterne sui mass-media e si faccia tesoro delle considerazioni che all’estero sono state avanzate già da alcuni anni.
Non vorrei sembrare eccessivamente vanaglorioso se di nuovo faccio partire la riflessione da alcune considerazioni che, circa venti anni fa, fornivo in risposta ad una lettrice, in un mio libro di divulgazione ginecologica, sull’inizio della vita:
«È così giungiamo al secondo quesito da lei postomi indubbiamente il più difficile e delicato di tutto il libro, e che per questo ho voluto trattare per ultimo.
Quando comincia la vita? Sembra più un problema filosofico e religioso che scientifico. Possiamo provare a dare tre risposte possibili, che seguono tre diversi ragionamenti.
Cominciamo con una dottrina che coincide con quella della chiesa cattolica, la quale pone l’inizio della vita al momento della fecondazione, cioè quando avviene l’unione dello spermatozoo con l’ovulo.
Si tratta indubbiamente di una fase molto importante, anche sotto il punto di vista scientifico, perché in quel preciso momento avviene infatti lo scambio delle informazioni genetiche tra i due gameti (l’ovulo e lo spermatozoo) e si viene a creare una individualità nuova e diversa rispetto a ciò che esisteva prima, anche se la materia che ha prodotto questa nuova entità era già qualcosa di vivente.
La fecondazione avviene nella tuba e precede di circa sette giorno l’annidamento nella mucosa uterina, evento che è impedito dall’azione di alcuni contraccettivi anti-annidatori come la spirale, che seguendo questa teoria dovrebbe essere considerata a tutti gli effetti un abortivo. Ipocriti perciò tutti quei medici che non eseguono l’aborto a richiesta della donna, ma applicano la spirale, che in un anno può provocare 12-13 micro-aborti.
Tra coloro che si interessano al problema della vita questa teoria viene seguita da un trenta per cento circa degli scienziati.
Esiste poi un’altra teoria, che assegna dignità alla persona umana soltanto quando questa è munita di un cervello e di un sistema nervoso centrale, tale da distinguerla dalle bestie. Poiché l’inizio di una attività elettrica cerebrale, anche rudimentale, può collocarsi intorno al principio del secondo trimestre, tali persone ritengono che soltanto da allora si può cominciare a parlare di entità umana da tutelare.
Questa teoria è molto pericolosa poiché, seguendo tale ragionamento, anche un decerebrato o un individuo in coma irreversibile vengono ad essere considerati esseri non umani e non degni di tutela e di rispetto. A tal proposito è prassi routinaria, nei trapianti di organi, prelevarli da individui che versano in queste condizioni.
Esiste poi un’altra teoria che ha avuto larga diffusione ad opera di Monod, uno scienziato francese, premio Nobel per la medicina, che è forse la più seguita attualmente tra gli scienziati, secondo la quale la vita è un’entità sorta per la combinazione  di più fattori alcuni milioni di anni fa, e da allora non si è più fermata; essa agisce perciò con continuità e non tollera la discontinuità, quale potrebbe essere la nascita di nuovi esseri.
Lo spermatozoo e l’ovulo che producono l’embrione sono già vita, per cui questa ha avuto una sola volta origine, un’origine tra l’altro comune a tutti gli esseri viventi: piante, animali e uomini.
Le confesserò che io propendo per quest’ultima teoria, anche se non ho sempre la certezza di essere nella verità (della Ragione A., Parliamone con il ginecologo, p. 181-183, Napoli 1982).
La problematica di definire se l’embrione è persona a pieno titolo, quindi degna di rispetto e protezione, oppure è un mero agglomerato di cellule, per cui può essere eliminato o manipolato a piacimento, rappresenta una selva oscura e chi vi si aggira può facilmente smarrire la diritta via...
La necessità di stabilire uno statuto ontologico dell’embrione è nata dai progressi delle tecniche di fecondazione assistita, che ha prodotto un numero crescente di embrioni ai primi stadi di sviluppo, non utilizzati nel processo riproduttivo e con l’ipotetica possibilità di essere adoperati per importanti sperimentazioni scientifiche.
Sotto il profilo filosofico in genere la persona viene contrassegnata da due caratteristiche fondamentali: l’individualità e la razionalità.
La razionalità, se non allo stato potenziale, compare chiaramente ben dopo la nascita, viceversa per l’individualità esiste un momento cruciale nello sviluppo dell’embrione, intorno al 14° giorno dalla fecondazione, dopo il quale si può essere certi che fenomeni come la gemellarità ritardata (scissione), il chimerismo (fusione) o la degenerazione cellulare (mola vescicolare) non si possono più verificare, dando la certezza all’embrione della sua individualità.
Questo termine è stato ritenuto eticamente significativo da parte di una corrente di pensiero laica, sviluppatasi soprattutto nei paesi anglosassoni, mentre per i cattolici lo sviluppo dell’embrione è un continuum senza salti significativi ed il momento della fecondazione rappresenta l’unico spartiacque ontologico da tenere in considerazione nella valutazione morale.
Non dobbiamo dimenticare inoltre che le moderne scoperte della biologia molecolare hanno demolito definitivamente tutte le teorie vitalistiche, avendo dimostrato che non esiste una vera e propria materia vivente, con proprietà caratteristiche in esclusiva rispetto all’universo inanimato, essendo identiche le molecole che costituiscono sia il mondo organico che quello inorganico.
Gli assertori della teoria del cosidetto pre-embrione, a dimostrazione della loro tesi che prima del quattordicesimo giorno non sono presenti nel prodotto del concepimento né individualità, né razionalità, espongono una serie di argomentazioni, di cui la principale è, a nostro giudizio, quella della potenziale gemellarità. Infatti nei primi giorni dopo la fecondazione e prima che si costituisca la stria primitiva, con una precisa disposizione spaziale delle cellule lungo l’asse cranio-caudale, è possibile che si distacchino due raggruppamenti cellulari, i quali diano luogo a due gemelli monozigoti, di conseguenza due ben distinti e diversi individui.
Questa cognizione è di recente acquisizione ed indubbiamente deve costituire fattore di profonda riflessione da parte di tutti.
Naturalmente il caso considerato potrebbe rappresentare la classica eccezione che conferma la regola, essendo chiaro che lo sviluppo dell’embrione normalmente si indirizza verso la formazione prima di un feto e poi di un neonato.
A riguardo della razionalità è indubbio che fino a quando non si sia sviluppato anche un solo abbozzo di sistema nervoso mancano del tutto le basi materiali per il manifestarsi di qualsivoglia razionalità. È pacifico che se si vuole ritenere la razionalità un carattere non potenziale, anche il neonato, che ne è privo non sarebbe coperto da tutela e l’eventuale infanticidio non equivarrebbe all’uccisione di una persona!
La conclusione da trarre dopo queste riflessioni è lasciata al discernimento del lettore: se l’embrione è persona a pieno titolo, uno di noi per intenderci meglio o è un mero agglomerato di cellule privo di valore morale, oppure per cercare una via di mezzo riconoscere all’embrione il carattere di un processo dinamico con valore e diritti morali progressivamente crescenti e proporzionali allo sviluppo biologico.
La meditazione su queste argomentazioni non è mero esercizio intellettivo, vista l’importanza che tali questioni rivestono nella pratica, come ad esempio il tentativo perpetrato di recente da parte di un ben preciso raggruppamento politico di farsi paladino di una nuova regolamentazione legislativa della questione, con la proposta di modifica dell’articolo 1 del codice civile, la cui eventuale approvazione, oltre a sconvolgenti complicazioni sul piano giuridico, annullerebbe di fatto la legge 194.

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