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giovedì 15 marzo 2012

Il seno nella pittura napoletana del Seicento

20/3/2006


Il Seicento è secolo di sfrenate passioni, che trovano spesso nel seno un emozionante baricentro, catalizzatore di emozioni le più diverse dall’odio all’amore, dal premio al castigo. 
Napoli è un centro figurativo di grande respiro e la pittura più importante si svolge a Bologna, a Roma ed all’ombra del Vesuvio, dove una committenza laico borghese, dai gusti raffinati, si affianca alla Chiesa e richiede per la gioia degli occhi e per adornare interminabili saloni, natura morta, paesaggi, scene di battaglia e se pure deve fare capolino un soggetto devozionale o un’immagine di santa, che sia bella, giovane ed ampiamente scollata e se deve raggiungere l’estasi, che questo stato divino sia simile alle vette dell’orgasmo. 
Stanzione fu assieme ad Artemisia Gentileschi il campione riconosciuto di questa pittura dolce ed ammaliante e tra i suoi allievi molti si distinsero con composizioni di alto livello, che facevano la felicità visiva di nobili e ricchi borghesi. Tra questi ricordiamo in particolare Bernardo Cavallino, Andrea Vaccaro e Pacecco de Rosa. Nel 1607 Caravaggio, giunto da poco a Napoli, dove in pochi mesi rivoluzionerà le arti figurative, ritorna sull’episodio di Cimone e Pero, che incastra in quello spettacolare squarcio dal vero costituito dalla pala d’altare per la chiesa del Pio Monte della Misericordia(fig.1). 


Sul lato destro della composizione una giovane puerpera offre all’anziano genitore il seno per sfamarlo, raffigurando ad un tempo due opere di misericordia: visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati. La modella è presa dai vicoli napoletani ed esercita il più antico mestiere del mondo, ma il seno caritatevole, rigoglioso di salute, che con slancio ed amore filiale offre al padre, è pregno di amore più che di nutrimento; da esso sgorga un latte dolcissimo, che oltre al corpo è panacea per lo spirito. E’ un seno salvifico, universo simbolico per eccellenza dove l’erotismo si unisce al nutrimento e dove l’amore e la vita riescono a vincere l’eterna battaglia contro l’odio e la morte. 
La lezione caravaggesca di crudo realismo fu ripresa da molti seguaci e tra questi va annoverato Jusepe Ribera, spagnolo di nascita, ma a tutti gli effetti napoletano doc, perchè, giunto giovanissimo in città, vi rimase per otre 40 anni fino alla morte nel 1652. L’artista amava raffigurare la caducità della carne, a tal punto che Byron affermò che amasse intingere il pennello nel sangue dei martiri. Nella tela che esaminiamo: Donna barbuta col marito(fig.2), oggi a Toledo presso la fondazione Medinaceli, il pittore ci rende partecipi di un’aberrazione della natura, ritraendo Maddalena Ventura, una donna abruzzese maritata e madre di molti figli, intenta ad allattare l’ultimo nato, pur munita di una faccia totalmente virile, di una folta barba e di un torace egualmente peloso, da cui protrude una mammella ripugnante, gonfia di latte, in grado di spegnere per lungo tempo qualsiasi desiderio erotico in chicchessia. Sulla destra della composizione una lunga epigrafe descrive dettagliatamente la storia paradossale di questa coppia, ripresa dal vero nell’atelier del Ribera in cinque giorni di lavoro. 

In primo piano una conchiglia, notorio simbolo ermafrodito o forse, più probabilmente, si tratta di un arcolaio con fili di lana, a rimembrare una tipica occupazione femminile, in stridente contrappasso con la paradossale mascolinità della donna. 
Un’oscurità densa e drammatica avvolge i due coniugi, mentre il volto rassegnato del marito è raffigurato con toccante intensità. Le fisionomie dei coniugi sono scolpite con magistrale virtuosismo e restano impresse nella memoria, quanto e più della sferica mammella verso la quale, inconsapevole, rivolge le sue attenzioni l’innocente frugoletto. 
Il martirio di Sant’Agata, alla quale, con estrema crudeltà, vennero amputate le mammelle, ha stimolato la fantasia di generazioni di artisti, che dell’evento hanno riprodotto gli aspetti più raccapriccianti. Noi viceversa, per lo sviscerato amore che nutriamo verso il più giocoso attributo femminile, abbiamo scelto una composizione più serena e rassicurante, che rappresenta il prodigio della guarigione, per cui abbiamo preso in considerazione la Santa visitata in carcere da san Pietro e l’angelo(fig 3), eseguita dal Lanfranco intorno al 1613-1614 e conservata nella Galleria Nazionale di Parma. 


La prodigiosa curatio mamillarum avviene durante la notte, quando san Pietro, accompagnato da un angelo che illumina il percorso con una torcia, va a visitare sant’Agata da poco ricondottavi dopo il triste supplizio. Egli applica con mano tremula un miracoloso unguento sulle ferite ancora aperte, le quali prontamente si rimarginano, restituendo al seno della giovane vergine siciliana le sue delicate forme, umiliate e lacerate dal coltello sacrilego e restituite per l’arcano prodigio all’innocenza di due universi mai conquistati. 
Luca Giordano ha dipinto chilometri quadrati di tele ed affreschi, preso da un furore creativo senza eguali. Spesso quando doveva ritrarre belle donne nude in pose lascive utilizzava la moglie, non sappiamo se per risparmiare il denaro per la modella o per la gelosia della consorte. 
Facciamo la conoscenza con le splendide fattezze della signora Giordano, Margherita Dardi, in un quadro: Venere dormiente e satiro(fig 4), oggi a Capodimonte, ritornato di recente all’onore delle cronache. 


A lungo in prestito presso la Camera dei deputati, la tela, che promana evidentemente una vigorosa voluptas, scatenò le ire della neo presidentessa Irene Pivetti, la quale, per non turbare le caste menti dei deputati, fece allontanare il quadro scandaloso, favorendone il ritorno nel museo napoletano. Più di recente l’opera del Giordano non è piaciuta,”la butterei” ha esclamato stizzita, neanche alla nostra first Lady, in visita ufficiale col marito a Capodimonte, facendoci intuire quante difficoltà poteva incontrare un quadro del genere nel Seicento, un’epoca che forse era meno bacchettona della nostra. 
Il dipinto è da porre in relazione con altre realizzazioni giordanesche che trattano la stessa tematica ed in particolare con il suo pendant Tarquinio e Lucrezia, un’altra splendida esibizione della signora Giordano nature, esaltante l’amore coniugale e la fedeltà, in stridente contrasto con questa Venere dormiente, un inno all’ebbrezza alcolica ed al sopito…ma non troppo desiderio erotico. Il modello iconografico ispiratore del quadro è il famoso Baccanale del Tiziano del Prado, nel quale il sonno non è dormire, ma dolce abbandono. 
La dimensione dionisiaca della scena viene esaltata da piccoli ma significativi dettagli, come la coppa del vino, appena libato, posta ai piedi della dea e l’episodio sullo sfondo, di chiaro significato lussurioso, nel quale un sileno ebbro e pasciuto si bea assieme a dei compagni, straripando a cavalcioni il dorso di un bieco animale. Sul petto, generosamente esposto, protrude un’ombra maliziosa che accarezza i due mondi innocenti, che non ambiscono che ad essere conquistati. Seni liberi e trionfanti che anelano, esigono, proclamano, pretendono di essere santificati. 
Artemisia Gentileschi, raffinata pittrice dal virtuoso pennello, giunse a Napoli nel 1627, attirata dalle ricche committenze che colà si potevano ottenere e non si mosse più dalla città fino alla morte. Respirò l’aria partenopea e mutò la sua tavolozza, rendendo più mediterranea la resa pittorica dell’epidermide, più dolce e sensuale l’incarnato, più squillante la gamma cromatica. Ci ha lasciato immortali rappresentazioni della bellezza femminile, prendendo a pretesto le grandi donne della storia e della mitologia. Tra i soggetti all’epoca più richiesti: Cleopatra, la leggendaria regina che si dà la morte offrendo al morso dell’aspide la magnificenza del suo seno indifeso, nella sua nuda carnale sensualità, senza enfatizzare l’immagine con l’aggiunta di gioielli e ornamenti elaborati. Un seno fiero e spavaldo che affronta senza paura il temibile serpente, unica difesa la punta acuminata dei più desiderati capezzoli nella storia dell’umanità. La pittrice raffigurò ripetutamente la sfortunata sovrana, raggiungendo l’apice del dramma, intriso di solenne bellezza in un dipinto(fig 5), oggi in collezione privata, eseguito intorno al 1630, dove si compiace di ritrarre la celebre regina nella sfolgorante esaltazione delle sue nudità, delle sue forme procaci e provocanti, che avevano fatto perdere la testa ai potenti della terra, con la mano complice che sembra voler accarezzare l’aspide, prima che le imprima il morso mortale sul capezzolo. Sembrano voler sfidare nella loro soda e prorompente vitalità l’insulto della morte. Cleopatra si appresta a morire con il volto voluttuoso e le labbra appena dischiuse, quasi in estasi e sembra godere della sua fine come una santa che, attraverso la morte, è certa di raggiungere la felicità e la pace dei sensi. 

I seni partoriti dal fertile pennello di Artemisia, di un incarnato alabastrino, sono carichi di energia, sia che appartengano a Lucrezia che vi infigge vigorosa il pugnale o siano di Betsabea, che li cura e li profuma in interminabili toelette, o della Maddalena che arde di macerarli nella penitenza, o di Ester, di Galatea, di Corisca, di Clio o di tante altre eroine senza paura, pronte ad offrire in olocausto il bene più prezioso di una donna.

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