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lunedì 5 marzo 2012

IL SENO NELLA PITTURA DEL RINASCIMENTO


In epoca moderna, a partire dal XV secolo, gli artisti, dopo i secoli di buio oscurantismo medioevale, non hanno mai cessato di interessarsi al seno femminile nelle sue svariate sfaccettature: scoperto o maliziosamente velato, innocente o peccaminoso, pubblico e privato, disponibile e proibito, senza tener conto delle forme e dei gusti anatomici, che nel tempo hanno subito sostanziali variazioni.
Dal seno efebico a quello prorompente, dalle forme opulente ed ipercolesterolemiche, glorificate nel Cinquecento e nel Seicento, ai seni a goccia o a pera, cari sia ai pittori pre-rinascimentali che alle avanguardie del Novecento. Una carrellata affascinante alla ricerca di una chiave di lettura, di una impossibile quadratura del seno, l’instabile oggetto del desiderio nel quale, pittori e scultori di ogni tempo hanno travasato le follie, i sogni, le ossessioni, i giochi fantastici, i pensieri di milioni di uomini, ansiosi di trovare una impossibile risposta alle loro ansie ed alle loro chimere.

Jean Fouquet: Madonna col Bambino


Jean Fouquet, uno dei massimi protagonisti del fecondo dialogo tra Settentrione e Mezzogiorno che domina la pittura europea del Quattrocento, ci dà una interpretazione della Madonna col Bambino maliziosa ed innocente nello stesso tempo, nella tavola oggi ad Anversa nei Musees Royaux des Beaux Arts. La sferica mammella sinistra della Vergine, che fuoriesce generosa, debordando dall’abito, richiama a viva voce i seni siliconati di una chirurgia estetica di basso rango, ma, stupefacente, è carne vera, che si mostra impudica all’osservatore con la silenziosa approvazione degli angeli, dipinti di un rosso fuoco, incerti tra incredulità e stupore. L’artista, che dipinge nel 1450, ben prima dei furori iconografici controriformisti, riproduce nei tratti della Madonna il viso e la bellezza devastante di Agnes Sorel, la favorita di Carlo VII, morta giovanissima in quello stesso anno.


Piero Di Cosimo: ritratto di Simonetta Vespucci


Piero Di Cosimo, segna il passaggio della pittura toscana dal primo Rinascimento al Cinquecento. Artista dalla precisione fiamminga e dalla fertile vena creativa nel ritratto di Simonetta Vespucci, eseguito nel 1480, oggi nel museo Condè a Chantilly, ci offre un seno lieve, pallido, appena accennato, sul quale striscia minaccioso un elegante serpente, già presago della prossima prematura morte della bellissima fanciulla, dal fascino misterioso e dalla profonda malinconia, accentuata dallo studiato effetto di contrasto della nube scura che incornicia il volto, dominato da una splendida quanto preziosa acconciatura.

Hans Memling: Betsabea al bagno

Pochi anni dopo Hans Memling, campione nordico della pittura a carattere religioso e devozionale, si confronta e lo farà una sola volta con il nudo femminile nella Betsabea al bagno, conservata a Stoccarda nella Staatgalerie. Il dipinto è uno dei rarissimi esempi di nudo muliebre nella pittura neerlandese del Quattrocento e come tale ha risvegliato l’interesse degli studiosi. Il Memling, rifacendosi ai raffinati modi pittorici del van Eyck, ha impresso un vivace senso di movimento alla figura della donna dai contorni di un’astratta bellezza. L’incarnato lucentissimo, alabastrino ci dà l’idea del marmo, ma di una marmo caldo, palpitante di vita e di desiderio. I seni sembrano assecondare la descrizione ideale che Ugo de Fouillot, celebre cantore della bellezza femminile ne fece in un suo sermone di commento al Cantico dei Cantici:” belli sono infatti i seni che sporgono di poco e sono modicamente tumidi...trattenuti, ma non compressi, legati dolcemente senza che ondeggino in libertà”.

Lucas Cranach il vecchio:Venere ed Adone

Nel 1506, ad inizio secolo, Lucas Cranach il vecchio, sensibile interprete della pittura rinascimentale tedesca, ritorna sul tema di Venere ed Adone, già trattato altre volte, ma in questa tela, conservata a Roma nella Galleria Borghese si esprime ad un livello qualitativo mai più raggiunto. L’iconografia è tratta dal mondo pagano, una miniera inesauribile per gli artisti ansiosi di sovrapporre alla narrazione il motivo del nudo, che prima di Cranach nella pittura tedesca era stato affrontato soltanto dal Durer.

Nei primi anni del XVI secolo l’ideale di bellezza era legato ai principi di proporzione ed armonia, certamente infranti dall’artista, che ci offre una Venere anticonformista, dalle gambe lunghissime e slanciate e dal corpo impudicamente esposto, mentre un velo ai limiti della trasparenza e leziosamente tenuto dalla dea tra le mani accentua maggiormente lo splendido corpo, al quale fa da corona un elegante cappello, calzato con spavalderia. Il seno, appena accennato e pur solenne, gotico, di vichinga altezzosità risplende nel biancore dell’incarnato porcellanato ed ammicca maliziosamente l’osservatore, incurante dello sguardo innocente dell’amorino, che ai suoi piedi le reca in dono un favo di dolcissimo miele.

Venere del Giorgione

Il Cinquecento inaugura la spettacolare serie delle Veneri nude con la più sensuale e misteriosa delle creazioni del Giorgione, il quale, nel 1509, ci fa dono dell’ immagine immortale di una placida fanciulla che sogna e ci fa sognare. Il quadro, conservato nella Gemaldegalerie di Dresda, ci mostra la novella Venere, dalle forme tornite ed appetibili, immersa in un ampio e tranquillo paesaggio, con il corpo ignudo spavaldamente esposto, ad eccezione del pube, dove poggia guardingo il palmo della mano. Il volto sereno, senza ombra di turbamento, irradia una serena beatitudine, mentre la ragazza è teneramente abbandonata nel sonno e si identifica con la calma serafica della natura circostante, ma sembra felice di poter essere contemplata, orgogliosa del suo seno sapientemente offerto, grazie al braccio poggiato con astuzia dietro la testa, che amplifica ed innalza i carnosi pomi dorati con le deliziose ciliegine.


Venere del Tiziano

Alla Venere del Giorgione fa eco la Venere del Tiziano, tra i capolavori dell’artista, realizzata nel 1538 e conservata a Firenze nella Galleria degli Uffizi. Uno splendore di carni sanamente nude ed un anelito a fissare per l’eternità un archetipo di bellezza fisica femminile, in un periodo storico impregnato di un simbolismo neoplatonico, che affonda le sue radici in una rilettura ficiniana della mitologia. Non più l’ideale divinizzato del Botticelli, che, succube dei deliranti sermoni del Savonarola, ritiene che la bellezza risplenda tanto più luminosamente quanto più si avvicina alla bellezza divina, bensì l’esaltazione di una donna vera, libera ed appagata, resa con colori vividi, ambrati. Una dorata e morbida beatitudine, folgorata da improvvise accensioni di luce e penetranti bagliori, che il malizioso pennello del pittore imprime nella tela con felicità. Lo sguardo languido sembra invitare lo spettatore a godere, con la vista e la più sfrenata fantasia del giovane corpo, nel quale due piccoli seni rifulgono come due boccioli di rosa, impalpabili ed esposti con orgoglio all’ammirazione.

Palma il Vecchio: donna discinta

A metà secolo, nell’arco di pochi anni, vediamo all’opera sul tema del nudo femminile alcuni degli artisti più illustri, da Palma il Vecchio al Bronzino, fino allo stesso Raffaello. Il primo divise con Giorgione e Tiziano l’onore e l’onere di modernizzare e rigenerare l’arte veneziana, portando a saturazione alcuni temi del primo Cinquecento. Le sue donne sono creature floride, matronali, fulgide e ci appaiono sempre come se si trovassero davanti ad uno specchio, in contemplazione soddisfatta e vana di se stesse, bandiere senza anima di una bellezza rigogliosa. Nel ritratto di donna discinta del museo Poldi Pezzoli di Milano l’artista entra in sintonia con le esuberanti forme anatomiche della modella, nell’abbondanza delle straripanti chiome biondo rossastro, delle morbide carni, delle soffici vesti, che lambiscono il seno e pare vogliano accarezzarlo. I capelli, foltissimi, sono di quel biondo tiziano che vira verso il rosso, una tonalità di colore di gran moda a Venezia in quegli anni, ottenuta grazie a raffinate quanto segrete tinture La donna sembra voglia rappresentare solo se stessa in un delirio di narcisismo e desidera l’ammirazione delle sue curve opulente. Il seno, con malcelata malizia, diventa il punto focale della composizione con la camicetta che scopre e nasconde nello stesso tempo, eccitando l’occhio incantato dell’osservatore.

Bronzino: Allegoria di Venere

Il Bronzino fu un abile manierista e seppe interpretare perfettamente il gusto di un’aristocrazia vuota, circondata di fasto e di apparenza. I suoi personaggi erano studiati più nelle pose che nelle fisionomie e nei suoi ritratti, realizzati con una tavolozza fredda e disincantata, mescolava con rara abilità il soggetto mitologico con complesse allegorie, come nel suo capolavoro: un’Allegoria di Venere conservata alla National Gallery di Londra, un inno pagano, un cantico solenne all’amore lussurioso ed al pieno soddisfacimento dei sensi. La tela, databile al 1545 e destinata a Francesco I di Francia, è impregnata di un profondo simbolismo variamente interpretato dagli studiosi, ma, al di là dei sottintesi, prorompente è la carica di viva sensualità che gronda dal ritmico articolarsi delle spettacolari anatomie, che si intrecciano soggiogate dal desiderio, spinto fino agli estremi di un irrefrenabile erotismo. Il ritmo narrativo è filtrato dal frigido intellettualismo che sottende alla sottile dialettica del sentimento amoroso, cara alle dissertazioni pseudo filosofiche del Cinquecento, ma la forza erotica che promana potente dalla tela, vince ogni vana discussione allegorica, con il corpo della dea che anela a fondersi con l’irresistibile Cupido dal culetto protrudente, abile titillatore di zone erogene. Attorno al seno di Venere, ambiguamente abbracciata al suo stesso figlio, si compie il rito della seduzione e della più perfida lussuria, con il capezzolo turgido, eccitato dalla palpitante carezza del Cupido, il quale cerca nel bacio divino il premio per la sua consumata perizia di seduttore. I corpi di un incarnato lucente, porcellanato sono fissati per l’eternità in una raffinatissima sintesi scultorea, che bene esprime l’acme della voluttà.

Un insuperato capolavoro dell’erotismo e della potente carica di seduzione del più fascinoso attributo femminile.

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