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giovedì 22 marzo 2012

Gli scipiti eredi del Migliore

10/4/2008
50 anni e passa di comunismo all’italiana




Da quando Palmiro Togliatti mise piede a Napoli, di ritorno dal paradiso terrestre, una importante fetta di storia italiana cominciò a prendere corpo e ad assumere lineamenti precisi e codificati.
Il Migliore aveva preso diretta visione degli effetti  della Rivoluzione e del trionfo di Stalin, aveva partecipato complice, a volte addirittura diretto le riunioni dell’Internazionale comunista, erano passati davanti ai suoi occhi impassibili: il terrore cieco, l’assassinio a tradimento, la delazione ubiquitaria, i campi di rieducazione con milioni di uomini e donne stipati come bestie, tutto senza lasciare traccia.
Appena cominciò a pontificare descrisse la feroce dittatura stalinista come il migliore dei mondi possibile e ammonì tutti i discepoli a praticare il culto della serietà, della moralità e soprattutto dell’onestà. Che importava se per anni a Mosca il comportamento suo e dei suoi sodali non fosse stato né onesto, né virtuoso, oggi lui aveva tutto dimenticato e rimosso definitivamente, voleva apparire puro come acqua di roccia, come una vergine illibata, pur sapendo di essere sì una vergine, ma adusa al coito anale ed alla frenetica pratica del sesso orale.
Ebbe un successo straordinario da culto della personalità sia tra gli intellettuali che tra gli operai ed i contadini. Consigliava agli studenti di impegnarsi nello studio, particolarmente delle materie giuridiche, per partecipare in massa ai concorsi per la magistratura ed impossessarsi di uno dei poteri dello Stato, il più potente ed assoluto, perché non deve dare conto a nessuno del suo operato.
Convinse i più creduloni di avere un posto di primo piano nel gran libro della Storia, anche il più umile operaio forgiava la Storia ed era un attore importante nel creare un futuro splendido e radioso. 
Idolatrava la forza come l’unica divinità in grado di assicurare il potere e riteneva la falsità necessaria e da praticare costantemente in tutti i luoghi ed in tutte le occasioni, sempre con una faccia di bronzo, untuosa e menzognera.  
Ingabbiò con ferree regole il mondo della cultura, isolando le voci libere ed indipendenti. Bisognava diffondere soltanto certezze e banalità fatte passare come verità assolute, non vi era spazio per l’originalità men che mai per il genio.
I libri da leggere erano pochi e controllati al di fuori degli scritti di Lenin e di Gramsci, al massimo si poteva dare uno sguardo alle poesie di Neruda o alle asserzioni di Solochov. Solo in anni recenti e timidamente è stato permesso compulsare i testi di Sartre e di Camus, di Heidegger e di Arendt, di Rilke e di Kundera.
I docenti universitari furono reclutati in massa, i concorsi a cattedra spudoratamente  truccati, le redazioni dei principali giornali asservite al nuovo verbo e nel frattempo l’oro di Mosca in dollari sonanti affluiva copiosamente come un fiume in piena nelle casse del partito, trasformandolo nel più potente e numeroso del mondo occidentale, vera e propria testa di ponte nel cuore della Nato. Un segreto nascosto e vergognosamente celato per decenni, al di là di ogni evidenza, fino all’apertura degli archivi moscoviti.
Anche i suoi eredi hanno visto sotto i loro occhi svolgersi accadimenti epocali, dalla rivolta in Ungheria, normalizzata dai carri armati sovietici, all’epicedio di generazioni di intellettuali dissidenti e di preti coraggiosi, costretti al silenzio o al lager.
Poi è sopravvenuta la crisi ed il crollo rovinoso del sistema, al quale ha fatto seguito dopo poco la caduta del muro della vergogna innalzato a Berlino.
Qualunque persona onesta e sana di mente davanti a questi avvenimenti, che hanno ridotto in frantumi miti e ideali, avrebbe recitato il mea culpa, si sarebbe ritirata in privato a meditare sul sogno svanito.
Gli eredi del Migliore non si sono invece sentiti parte in causa, responsabili nemmeno in parte dei disastri della Storia, quel moloch feroce, quel feticcio che loro adorano col fervore del più ottuso dei credenti.
Non hanno pensato di rimanere in doveroso silenzio per qualche anno, di ripudiare vigorosamente il loro passato, stracciandosi in pubblico le vesti, viceversa hanno ritenuto necessaria la loro presenza al capezzale dell’Italia, la malata terminale affetta dal devastante cancro di una democrazia incompiuta, che loro credono di curare e di guarire con la ricetta dei loro acerrimi avversari: i liberali.
I loro volti sono cambiati, non più gli sguardi arcigni e patibolari della nomenklatura togliattiana, bensì visi sorridenti ed abbronzati, non più corpi sgraziati, ma fisici tenuti in forma da massaggio e palestra, come si addice a frequentatori di salotti a la page, a capitani di yacht lussuosi, a seguaci della nuova frontiera kennediana ed adoratori del vitello d’oro, modernamente rappresentato da banche e multinazionali.
Non è cambiata la loro propensione a trattare il denaro pubblico come disponibilità personale, in questo non differiscono dagli antichi democristiani, i quali almeno si vergognavano in privato e temevano le fiamme dell’Inferno, mentre loro, dovendo dare conto soltanto al meno severo dio della storia, sono spavaldi nella loro spericolata condotta morale.
Sono certi di doverci rappresentare, di dover risolvere i nostri problemi, di dover disegnare il nostro futuro, non ci liberemo facilmente della loro ingombrante presenza. 

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