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mercoledì 21 marzo 2012

Giuseppe Recco, pittore di pesci, fiori e dolciumi

14/12/2007

Il 1656, l’anno fatidico della peste, fu fatale a Napoli per un’intera generazione di artisti, che venne falcidiata dal morbo; stranamente gli specialisti di natura morta superarono quasi tutti indenni questo evento luttuoso e continuarono a lavorare con identica lena senza particolari sussulti.
È dopo la metà del secolo che compare prepotentemente alla ribalta Giuseppe Recco (Napoli 1634 - Alicante 1695) la personalità più importante nel panorama della natura morta napoletana.
Egli fa parte di una grande dinastia di specialisti: suo padre Giacomo, tra i fondatori del genere, suo zio Giovan Battista, ineguagliabile nei suoi caratteristici soggetti di cucina e selvaggina, i figli Elena e Nicola Maria, che seguiranno degnamente le orme paterne.
A differenza degli artisti del settore, Giuseppe Recco spazia con abilità e padronanza tutti i soggetti, dai fiori ai pesci, dagli interni di cucina alla frutta senza contare un lungo periodo della sua attività in cui ritrae senza problemi squisiti dolciumi e preziosi broccati, vetri e tappeti, strumenti musicali e vasi antichi, maioliche e preziosi ricami, con una tale abilità da provocare, secondo lo spiritoso racconto del De Dominici un aborto per la «voglia» ad una donna gravida incantata alla vista dei suoi dolciumi su una tela, riprodotti con tale perfezione da parer veri; né più né meno che un moderno caso di «ekphrasis», cioè di frutta dipinta così bene, che gli uccelli si mettono a svolazzare sul quadro tentando di beccarla.
Il suo spessore culturale è poderoso ed i suoi riferimenti spaziano dalla pittura romana alla lombarda, dalla spagnola alla nordica. «Tutto il repertorio sperimentato dai maestri che lo hanno preceduto ritorna nella sfera ombrosa e scintillante della qualità visiva di Giuseppe: i fiori del padre Giacomo e la frutta di Luca Forte e del Maestro del Palazzo San Gervasio, ma forse soprattutto la luce cruda e macilenta e lo spessore vitale della verità di Giovan Battista Recco rifioriscono con un furore tumultuoso ed incessante nell’immaginazione di Giuseppe» (Volpe).
A lungo la critica ha contrapposto la sua figura a quella di Giovan Battista Ruoppolo, ritenendo l’uno specialista di pesci, l’altro di frutta, ma il progredire degli studi ha mostrato tutti i limiti di questa sterile dicotomia e ci ha restituito un artista parimenti abile in tutti i settori della natura morta.
La culla come apprendista di Giuseppe è presumibilmente nell’alveo della tradizione familiare, ove gli era agevole ammirare il gran bouquet luminoso di vaga ascendenza nordica del padre Giacomo, respirare aria di sughi prelibati cotti in antichi tegami di coccio nelle cucine dello zio Giovan Battista, senza però trascurare di osservare attentamente le grandi esplosioni luminose ed incontrollate di Paolo Porpora.
Il De Dominici gli assegna giovanissimo un viaggio in Lombardia al seguito del padre, ove avrebbe fatto la conoscenza della originale pittura del Baschenis, direttamente o tramite il Bettera.
Una serie d’elementi sui quali ritorneremo, quando parleremo del suo titolo di cavaliere e della sua pittura di sapore lombardo, fanno escludere l’ipotesi di questo viaggio. I suoi esordi sono viceversa nel segno di un rispetto assoluto del dato naturale di ascendenza caravaggesca, pur in un contesto culturale come quello napoletano che si avviava a cedere completamente alle novità del Barocco, portate al trionfo dal genio travolgente di Luca Giordano.


Egli combatterà quasi da solo con grande dignità, novello don Chisciotte contro i mulini a vento. Egli «respinge l’addolcimento del tonalismo, lo sgranarsi dorato delle superfici, il giuoco della vibrazione cromatica dell’insieme, vorrà farsi l’araldo di un richiamo all’ordine, contro questa dissoluzione dei tempi moderni, questa pittura che gli appariva facile, rapida, sciatta, così distante dagli eroici modelli di tanti illustri predecessori» (Causa).
Solo negli ultimi anni dovrà cedere ad un mercato ove il gusto dei committenti influenza le richieste agli artisti, che non possono che adeguarsi. Collaborerà in alcune composizioni con lo stesso Luca Giordano e cederà alla moda delle scenografiche cascate di frutta e di fiori o alle confuse mescolanze di pesci, frutta ed oggetti musicali, anche se si tratterà di un adeguamento formale che lascerà salda la forza del suo dettato: «trasalimenti di sogno nel rapido infrangersi della luce sulle squame dei pesci, indugio vermeriano di chiarori arrossati che infocano la tornitura martellata dei rami, iridate evanescenze della pelle della frutta, felpata, lucida, pelosa, ispida, tenera, che già ne senti l’aroma asprigno o zuccherino, decadente abbandono crepuscolare nell’indagine delle superfici, fonte di innumerevoli emozioni» (Causa).
Giuseppe Recco, caso più unico che raro, fin dall’inizio della sua attività ebbe l’abitudine di firmare o siglare e spesso anche datare i suoi quadri; di conseguenza il suo cammino artistico è percorribile agevolmente dagli studiosi. Qualche incertezza attributiva è derivata soltanto per l’uso della sigla «G.R.», in comune col padre Giacomo e con Giuseppe Ruoppolo, ma fortunatamente egli usò più sigle nel corso delle sue opere datate, che coprono un periodo che va dal 1664 al 1691. Egli all’inizio adopera quasi sempre la firma per esteso Gio o Gios. Recco, poi nell’ottavo decennio G. Recco o il monogramma G.R., soltanto dal 1683 al 1691 compare il titolo E Q S Recco, cioè il titolo di cavaliere. Tale titolo nobiliare secondo il De Dominici gli viene assegnato nel 1667 ed è quello di Caballero di Calatrava.


I puntigliosi studi del Perez Sanchez hanno escluso che si potesse trattare di quel cavalierato perché esso veniva assegnato esclusivamente ai nobili. In anni più recenti il De Vito ha proseguito con impegno queste ricerche sia in Italia che in Spagna, le quali pur non avendo fornito una risposta definitiva, hanno finito per creare quasi un giallo con clima di suspense, perché in alcuni documenti reperiti il Giuseppe Recco cavaliere risulta figlio non di Giacomo ma di un certo Guglielmo. Con tutta probabilità sono esistiti nello stesso periodo due Giuseppe Recco e lo stesso De Dominici è rimasto ingannato dall’omonimia, che gli ha fatto raccontare assieme episodi spettanti ai due diversi personaggi, come ad esempio il viaggio in Lombardia del Recco che realmente ottiene nel 1667 il cavalierato di Calatrava, come conferma il reperimento di un documento dell’archivio storico di Madrid.
Il Giuseppe Recco pittore se non fu, come sembra oramai acclarato, caballero di Calatrava, fu senza dubbio cavaliere, come testimoniano le numerose firme sui suoi quadri degli ultimi anni, precedute inequivocabilmente dall’appellativo di «Eques».


L’ipotesi più probabile è che possa trattarsi di un titolo dato dalla Chiesa che prevedeva la possibilità di conferirlo agli artisti, ed antecedenti illustri a Napoli sono costituiti da Giovan Battista Caracciolo, Massimo Stanzione e Giuseppe Ribera.
Il percorso artistico ufficiale di Giuseppe Recco è scandito da una serie di opere firmate dal 1664 al 1691, essendo stato post datato il Bodegòn con un negro e strumenti musicali della collezione Medinacoeli a Madrid, la cui data sembrava fosse 1659, ma ad una più attenta lettura, in occasione di una mostra, è risultata essere 1679.
Negli ultimi tre decenni del secolo Giuseppe Recco è il protagonista assoluto della pittura di natura morta a Napoli, dove rinnova completamente il genere introducendo nuove tematiche e collaborando con i più importanti pittori di figura a partire da Luca Giordano. Alla fine della sua carriera è talmente celebre da essere chiamato alla corte spagnola di Carlo II.


Del 1664 è il Bodegòn con rami e pesci della collezione Moret, un tempo attribuito a Giovan Battista Recco. Esso mostra affinità verso i modi pittorici di autori iberici quali il Pereda ed il Cerezo ed è la lampante testimonianza di movimenti culturali sull’asse Italia Spagna e viceversa; la luce viene modulata secondo lo schema ombra luce penombra del tutto sovrapponibile agli esiti del Battistello della fase più antica.
Del 1666 è il Paesaggio con pesci ed una barca, di collezione privata napoletana, che, presentato alla grande mostra di Firenze del 1922 sulla pittura italiana del ’600, dopo un quarantennio di «latitanza» ad ubicazione sconosciuta è ritornato all’attenzione degli studiosi nel 1964 in occasione della rassegna di Napoli sulla natura morta.
In questa tela di grandi dimensioni un elemento di pregnante novità è costituito dal potente ritmo narrativo che dall’esame del dettaglio si allarga ad una più ampia visione d’insieme, potenziata dallo spazio dedicato allo squarcio paesaggistico. La luce ancora pienamente caravaggesca nel cielo mette in risalto il rosso fuoco delle ore vespertine.


Nel 1668 la grande composizione Natura morta di pesci con pescatore di collezione Pagano in Napoli rappresenta uno dei risultati più brillanti raggiunti dal Recco ed un traguardo importante per tutta la pittura di genere a Napoli. All’opera collabora il Giordano, che comparirà anche in altri importanti dipinti successivi.
Del 1672 è una tela non finita anche se importantissima nel percorso artistico del Recco, la Natura morta con fiori, frutta e uccelli dei depositi del museo di Capodimonte, di eccezionale interesse filologico proprio per la sua incompiutezza: ricercatissima in alcune parti e semplicemente abbozzata in altre.
Del 1674 sono i Pesci di collezione Gaudioso a Catania.
Del 1675 la celebre Dispensa dell’Accademia di Vienna, alla quale si riferiscono anche altre tele, come la Cucina della collezione Pagano di Napoli; tutti dipinti ispirati allo stile dello zio Giovan Battista, un referente omaggio postumo alla memoria ed alla genialità del pittore più antico.



Questo gruppo di cucine non opulente ci trasmette un genuino odore di salse ed intingoli vari cotti a fuoco lento su vecchi tegami e ci fa tornare indietro nel tempo in quei grandi ambienti dove si preparavano sontuosi ed interminabili banchetti per i nuovi ricchi, i quali costituivano anche i principali committenti per questi nuovi soggetti, che non troviamo mai negli inventarî antichi della nobiltà di sangue né a Napoli né in Spagna, per una precisa discriminante ideologica. I destinatarî di queste iconografie erano una nuova classe di collezionisti, sia nobili che mercanti: la nascente categoria borghese sorta sulle ceneri della rivoluzione di Masaniello e della peste.
Nel 1676 I cinque sensi di collezione privata a Bergamo; quindi nel 1680 l’importante tela del museo di Pesaro, in cui compare il titolo «EQS R».
Nel 1683 un’importante committenza straniera, per il V Earl di Exeter che, per la sua III George room, dove ancora oggi si trovano, ordina al Recco due pendant di soggetto floreale, nei quali l’artista manifesterà i primi cedimenti alla magniloquenza del barocco internazionale. 
L’ultima fatica documentata è del 1691, data di esecuzione dei Pesci conservati a Firenze agli Uffizi.


Riguardo l’iconografia delle opere di Giuseppe Recco, che come abbiamo visto non esclude alcun soggetto, bisogna fare alcune riflessioni.
Si è a lungo parlato di Giuseppe Recco specialista di pesci, insuperato cantore di egloghe marinare, di speranze di facile sostentamento in una città privilegiata dalla natura. E proverbiale è la sua predilezione per i crostacei dalla veste verrucosa ed aspra, per i quali si presta a meraviglia il suo tocco spiritoso, tutto sprizzante riflessi, che lo fa subito riconoscere.
I pesci e gli altri frutti di mare fanno parte inscindibilmente della vita di ogni giorno del napoletano, sia esso povero o ricco e costituiscono per la varietà di specie e la vivacità di colori una palestra inesauribile per un’artista attento a ritrarre il dato naturale e «le sottili vibrazioni di luci, il cangiar di toni con anticipato sentire romantico, popolando di cose reali gli spazi dell’ombra» (De Vito).
Le marine ritratte dal Recco con vivacità e dovizia di particolari sono piene delle più varie specie di abitatori del mare: tartarughe, granchi, seppie e calamari, pesci di ogni colore e dimensione ancora vivi, guizzanti, lucidi, grondanti acqua, frammisti a tralci di corallo e ad alghe nere come la pece, spaselle di pescatori ed attrezzi per la pesca; il tutto ambientato con un accorto equilibrio tra oggetti rappresentati e paesaggio, attraverso scorci di panorama che hanno la delicata funzione di modulare i riflessi della luce, che, graduata da una delicata tastiera cromatica, ci fa percepire le più sottili vibrazioni della materia.


Un altro delicato ed ampiamente dibattuto problema iconografico nella pittura di Giuseppe Recco è costituito da quel gruppo di tele di argomento poco napoletano costituito da: I cinque sensi, firmato e datato 1676, in collezione Lorenzelli a Bergamo, la Natura morta con collezione di vetri del museo Narodowe di Varsavia, la Natura morta con vetri, dolciumi, fiori e pesci in collezione Romano, la Natura morta con pane, biscotti e fiori della collezione Banco di Napoli oggi al museo Pignatelli e quella simile del museo di Pesaro, la Natura morta con maschere e strumenti musicali del museo Boymans - van Beuningen cui va collegata la tela con Tappeto, canditi, fiori e cesto di frutta della collezione Molinari Pradelli ed infine il Bodegòn con negro della collezione Medinacoeli di Madrid.
Questo nutrito gruppo di tele, alcune di altissima fattura, è stato realizzato tra il 1675 ed il 1680, in anni ben lontani dall’ipotetico viaggio in Lombardia narrato dal De Dominici, dove il giovane Recco avrebbe preso contatto con gli esempi del Baschenis e del Bettera, nelle cui opere tappeti raffinati ed elaborati strumenti musicali sono la regola. Esse sono viceversa opere della piena maturità ed i referenti culturali debbono necessariamente essere diversi. Da un lato si può pensare allo stimolo di Francesco Fieravino detto il Maltese ed anche di Meiffren Conte, la cui presenza a Roma è documentata per alcuni anni.
Naturalmente non bisogna escludere la possibilità che i tanti imitatori del Baschenis di prima e seconda battuta abbiano collaborato a prolungare l’ombra del maestro bergamasco fino a Napoli, con il suo patrimonio di «chicche e dolcetti incipriati di zucchero, grevi tendoni scenografici e tappeti dal pelo morbido e rilucente, e poi cassette, cofanetti, mandole, liuti, pifferi, flauti, dolci, partiture squinternate, specchiere, argenti preziosi e cannocchiali» (Causa).
Esaminando questa serie di oggetti, rari a riscontrarsi nella natura morta napoletana, non bisogna dimenticare che rari non erano nell’ambiente aristocratico castigliano e ben conosciamo gli scambi e le influenze reciproche che sono intercorse tra la Spagna e Napoli.
Come già sottolineato dal Perez Sanchez in occasione della mostra a Madrid sulla pittura napoletana, i committenti aristocratici spagnoli amavano l’esposizione di tanti vetri preziosi, ceramiche e vasi antichi, per fare da specchio alle proprie raffinate collezioni di cose preziose. Se esaminiamo la tela del museo di Varsavia, di eccezionale fattura, rimaniamo incantati dalla circostanza che, al fianco della spettacolare coppa di fiori, fa bella mostra di sé una fantastica esposizione di vetri dipinti, cristalli di Murano, manufatti catalani e façon de Venise.


In campo floreale, dopo gli influssi nella prima fase del Porpora e del padre Giacomo, nella piena maturità il Recco prende ispirazione anche dai variopinti esempi di fiori del francese Monnoyer, indiscusso mattatore della specialità oltralpe, o del più antico Nicolas Baudesson, con il quale spesso viene ancora oggi confuso nelle grandi aste internazionali.
Negli ultimi decenni della sua attività il Recco, in una fase della pittura napoletana tutta tesa al barocco e dominata dalla prorompente personalità di Luca Giordano, cambiò parzialmente registro avvicinandosi a quelle esperienze figurative tendenti al decorativismo fastoso, che svolgono una funzione trainante su tutto l’ambiente artistico, sul quale esercitava il suo influsso anche il fiammingo Abraham Brueghel, presente in città in quegli anni.

Il Recco partecipa alle periodiche celebrazioni della festa dei Quattro Altari, patrocinate ogni anno dal viceré marchese del Carpio e con la regia dell’onnipresente Luca Giordano. In queste feste vengono eseguite tele di grandissime dimensioni, che vedono all’opera i più grandi pittori di natura morta collaborare a più mani con specialisti di figura. Sono quadroni di spregiudicato taglio compositivo e di grande ricchezza cromatica che stupiscono la grande folla accorsa ad ammirarli.
Al culmine del successo ed oramai anziano, Giuseppe Recco venne invitato dal re Carlo II in Spagna, ove si recò in compagnia della figlia Elena. Il Lanzi, famoso biografo, lo riteneva «de’ primi d’Italia nelle cacciagioni, negli uccellami, nei pesci e in simili rappresentazioni». Morì ad Alicante nel 1695 lasciando due originali e modeste tele di argomento sacro conservate in collezione Arenaza a Malaga: una Morte di San Giuseppe ed una Assunzione della Vergine.
Una committenza importante cui non ci si poteva negare o un modo per salvare l’anima ad un antico cavaliere? 
Giuseppe Recco dopo aver dominato per decenni la scena della pittura di genere lascia un certo numero di allievi e di seguaci, tra cui merita di essere ricordato Marco De Caro, che spesso raggiunge una qualità molto alta; ma la sua opera trova i più convinti seguaci e prosecutori nell’ambito della sua famiglia con i figli Elena, pittrice ricercata ed il più maldestro per quanto industrioso Nicola Maria.
Elena Recco (attiva tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo) predilesse del padre l’iconografia marina, dove riuscì a raggiungere esiti più che cospicui.
Ella si recò in Spagna con il genitore nel 1695 e lì si trattenne per qualche tempo, lavorando per la corte, dove negli inventarî risultano alcune tele di soggetto floreale al momento non rintracciate.
Le uniche sue opere certe sono due composizioni di pesci, una delle quali firmata, conservate nel castello di Donaveschingen, illustrate dal Di Carpegna.
La critica ha affiancato a queste due tele un gruppo di altri dipinti conservati nel museo di Varsavia, nel museo Puskin a Mosca e nella City Art Gallery di Leeds.Di recente in aste nazionali ed internazionali sono passate composizioni marine assegnate ad Elena Recco ed alcune di queste posseggono i caratteri distintivi per una attribuzione certa.
Una particolare tinta rosata delle squame unita ad una sprizzante vitalità delle prede appena pescate che brillano lucentezza e trasudano l’umido del mare sono i caratteri patognomonici della pittrice, che nelle tele veramente sue ben si è meritata il successo e la considerazione che godette tra i suoi contemporanei.
Purtroppo sul mercato circolano tele di modesta qualità che di Elena Recco hanno soltanto il nome imposto da antiquarî desiderosi di etichettare sempre e comunque qualsiasi opera. 
Nicola Maria Recco, anche se non citato dal De Dominici, è un altro figlio di Giuseppe che segue le orme paterne, ma ad un livello decisamente inferiore.
La sua pittura è afona, priva di slanci vitali, stanca ripetitrice di formule stereotipate attinte al patrimonio iconografico familiare. Alcune tele firmate di pesci ce lo mostrano poco più che modesto e solo il nome glorioso e gli illustri natali gli hanno ritagliato un suo piccolo spazio nella storia della natura morta napoletana.
Stranamente il De Logu aveva una certa considerazione per i suoi dipinti «notevoli specialmente per i primi piani meno gli sfondi che sono un po’ sommari».
Le opere di Nicola Maria, e sono molte quelle sicuramente autografe, perché firmate, ad un occhio attento sembrano quasi una caricatura di quelle del padre: incerte nei dettagli, prive di ogni sensibilità, accentuate senza motivo negli effetti luministici.
Fu anche pittore di cucine ed un suo dipinto con questo soggetto, datato 1673, ce lo configura di molto antecedente ad Elena e contemporaneo del padre.
Il quadro familiare dei Recco si conclude con un breve cenno a Gaetano, attivo  negli ultimi decenni del secolo e di cui parleremo in seguito più diffusamente, probabilmente un lontano parente come si evince dalla presenza nei suoi dipinti di altro soggetto di consistenti brani di natura morta. Infine una curiosità: è possibile reperire qualche quadro firmato (e con firma antica) Giuseppe Recco e di modestissima qualità, come ad esempio il Cervo morto, legato all’albero per le zampe di collezione privata napoletana. Un lontano parente, omonimo, od un antico impostore? Quel che ci voleva per intorbidire ancor di più le acque scure della natura morta napoletana.

Foto di Dante Caporali

3 commenti:



  1. Carissimo qualche problemino di salute mi ha tenuto lontano dai tuoi pregevoli scritti. Oggi ho sommamente apprezzato questo tuo scritto su Giuseppe Recco gigante e poeta della natura morta che qui è veramente " still life"come dicono gli anglosassoni. Vita palpitante e di una poesia più che Veermeriana o Velaschiana. Trovo straordinari i due dipinti centrali con vassoi alimenti e trasparenze della luce che attraversano il vetro. Solo la caravaggesca fiscella ambrosiana giunge a tanto. E le ascendenze caravaggesche tu le hai giustamente poste in risalto. Grazie mille Achille per questa delizia. Un Abbraccione
    Antonio Giordano

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  2. Grazie è stata una lettura interessantissima
    Mary Police

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  3. Risorgo per continuare a leggere e a guardare la bellezza che ci proponi. E complimenti per lo splendore del tuo dipinto. Viata a te...si direbbe nel mio dialetto lucano che è maledettamente simile alla lingua letteraria napoletana del 1600 come ho potuto appurare dalla lettura del conto di Basile nel bellissimo commento del Rak.
    Ciao Achille buona domenica
    Antonio Giordano

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