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domenica 25 marzo 2012

Dipinti del Seicento napoletano a Cosenza

3/4/2009


Il San Girolamo (01), quadro di altissima qualità, tra i gioielli della raccolta, è attribuibile con certezza a Luca Giordano nella sua fase riberesca. Nei primi anni della sua attività è a tutti noto che l’artista si rifece ai modi pittorici del Ribera e ne riprese alcuni temi iconografici di successo, come le mezze figure di filosofo, che ebbero nel Seicento una grande diffusione, non solo in Italia, perché richieste da uomini di cultura che amavano adornare i loro studi e le loro biblioteche con immagini di sapienti dell’antichità.
Molto ricercate erano anche le figure di santi per devozione privata e tra queste bisogna includere il nostro San Girolamo, il quale ci consente di verificare il grado di assimilazione della lezione del valenzano da parte del Giordano, un imprinting mai dimenticato, infatti la critica più avvertita ritiene che anche in anni maturi Luca dipinse più volte alla maniera del Ribera.
Nella composizione si osserva l’abbandono del netto stacco chiaroscurale, dei bagliori folgoranti e dei fondi scuri presenti anche nel San Girolamo della Pinacoteca civica di Asolo, mentre col Profeta Balaam fermato dall’angelo del museo di Berlino condivide il tono della folta barba bianca. Per la collocazione cronologica della tela l’ipotesi più convincente è intorno agli anni Sessanta, a comprovare il recupero di formulazioni verso le quali Luca  si era orientato nei tempi della sua prima formazione. 
Prima di aderire anche lui alla paternità giordanesca del dipinto il Pavone aveva ipotizzato che potesse trattarsi di un prodotto della bottega riberiana ed aveva pensato al pennello di Hendrick Van Somer, uno dei suoi allievi più dotati. 
L’altro Giordano della collezione Pellegrini, il Cristo benedicente (02), assegnato all’artista da Spinosa e Leone De Castris è di minore qualità e risente vistosamente dei numerosi restauri ai quali negli anni è stato sottoposto. Esso si colloca agli anni 1658 – 60, in un periodo di tangenza con l’attività di Mattia Preti, presente in città in quegli anni. 

Il Giordano infatti, tornato a Napoli nel 1653 dal suo viaggio di studio a Roma, Firenze e Venezia, sviluppò in senso barocco il suo stile, quindi nel decennio successivo si accostò al Preti che divenne per lui uno stimolo ed un punto di riferimento. 
Nella collezione sono conservate sei quadri di forma ovale attribuibili ad un artista noto sotto il nome convenzionale di Maestro dei martirii, di questi quattro furono esposti nel 1976 nella mostra di Cosenza organizzata dalla Di Dario Guida che ipotizzò lo stesso autore. Essi rappresentano Guarigione dello storpio, Martirio di Sant’Andrea, Resurrezione di Lazzaro, Crocefissione di San Pietro(03 – 04 – 05 – 06).





Lo studio di queste tele permette di approfondire la conoscenza di quella figura ancora dai contorni indefiniti che si cela ancora sotto un nome di convenzione. Si tratta probabilmente di un nordico, collocabile stilisticamente tra i  modi pittorici di Scipione Compagno e Carlo Coppola, attivo intorno al IV decennio del secolo, il cui corpus ancora esiguo è spesso ricavato escludendo l’attribuzione ad artisti dai caratteri più riconoscibili dalla critica o più frequentemente quando in un dipinto si legge lo stile di più artisti, come se ci si trovasse davanti ad un’originale esercitazione di bottega. Inizialmente tale figura era ritenuta più arcaica rispetto all’attività di un affermato specialista del genere come può essere considerato Domenico Gargiulo, ma la comparsa recente di dipinti, tra cui da annoverare anche quelli di collezione Pellegrini, nei quali evidenti sono i prelievi letterali di personaggi, scene ed abbigliamenti lungo un arco temporale molto ampio, ha indotto ad ipotizzare un periodo molto lungo di attività o la presenza di più pittori che si nascondono sotto la provvisoria etichetta di Maestro dei martirii.
Numerose opere, anche importanti, navigano ancora incerte sotto questa denominazione convenzionale e tra esse ricordiamo il Martirio di San Gennaro del museo di Besancon, che dopo aver sopportato tre diverse attribuzioni, anche da fonti autorevoli, a Salvator Rosa, a Filippo Napoletano ed a Scipione Compagno, oggi secondo gli studiosi più avvertiti non può essere assegnato a nessuno di questi artisti più noti, perché in esso sono presenti più modi pittorici non omogenei.
Un esame dettagliato dei quattro dipinti permette di cogliere più compiutamente i riferimenti stilistici ed i prelievi letterali dagli artisti più importanti nella specialità dei martirii, genere in voga a Napoli nel III e IV decennio del Seicento.
Una prima constatazione è che in tutte le tele i cieli sono “spenti” e non hanno niente di quelli del Gargiulo, nei quali la gamma cromatica e le grigie nuvole trasversali orlate di rosa contro l’azzurro, costituiscono il più tipico segno di riconoscimento del pittore.
Nella Guarigione dello storpio (03) è presente sulla destra una figura femminile con un bambino che denota chiaramente una derivazione da Schoenfeld, artista svevo presente a Napoli dal 1638 al 1649, i cui caratteri distintivi furono l’uso di colori chiari e tenui, la pennellata vibrante e nervosa, la luce forte e diretta, che rende evanescenti ed instabili le figure, dall’elegante modello allungato, desunto dalle stampe di Callot, inserite in ambienti fortemente caratterizzati in senso classico, simili a scene teatrali.

Il Martirio di Sant’Andrea (04) si rifà al dipinto di analogo soggetto del Gargiulo conservato a Portici nel ritiro dell’Addolorata e presenta caratteri falconiani in alcuni personaggi come anche nella groppa poderosa del cavallo bianco in primo piano; mentre il nudo maschile ripreso di spalle, che guarda la scena e che possiamo trovare in molti altri dipinti della prima metà del Seicento, ha una chiara matrice battistelliana.
Nella Resurrezione di Lazzaro(05) i colori dei mantelli dei personaggi centrali ricordano la tavolozza del Gargiulo, al cui stile si rifanno anche i rami e le foglie degli alberi. Interessante il dettaglio della città all’orizzonte che si apre ulteriormente con la visione di un’aspra montagna.
Ed infine nella Crocefissione di San Pietro(06) è sotto gli occhi l’impressionante somiglianza tra la figura piegata in primo piano con la maglia rossa e l’analogo personaggio del Martirio di Santo Stefano di Carlo Coppola presente a Roma sul mercato antiquariale (cfr A. della Ragione – Il secolo d’oro della pittura napoletana, II vol, pag 130); rispetto alla tela del Gargiulo di analogo soggetto, conservata in collezione privata a Napoli, possiamo invece riconoscere alcune figure e la caratteristica bandiera rossa, quasi una firma nascosta dell’autore.

Le Nozze di Cana(07) sono opera di un ignoto pittore fiammingo attivo a Napoli nei primi decenni del XVI secolo, un membro di quella numerosa colonia presente nel viceregno sin dai tempi della Notte di San Bartolomeo. La tela presenta elementi veneteggianti e parallelismi con le opere di Wenzel Cobergher ed Abraham Vinx. 
Nei cani che si azzuffano, nei piatti, nel vassoio di frutta trapela una propensione verso la pittura di genere che potrebbe far pensare alla produzione di pittori fiamminghi documentati a Napoli nel primo trentennio come Bartolomeo Ghesenz o Pietro Fiammingo, specialisti in cacce e nature morte.
Sul retro della seggiola è presente lo stemma dei Pignatelli, nobile e famosa famiglia napoletana, particolare che conferma l’esecuzione della tela in area meridionale.
Nella composizione sono evidenti caratteri precipui della pittura nordica quali la trasparenza dei calici, la rifinitura dei vassoi, la cura dedicata al cromatismo delle vesti ed ai copricapo delle donne.
Altri interessanti dettagli sono costituiti dai cani che si azzuffano, il cagnolino che si affaccia sotto la tovaglia e lo splendido scorcio di natura morta in primo piano, che denota caratteri prettamente napoletani, con frutta tutta partenopea, dalle pere all’uva, ai fichi dottati, che dovrebbero far avanzare la datazione oltre il terzo decennio del secolo. 

Un altro ignoto pittore fiammingo attivo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento è l’autore di un rametto raffigurante l’Ecce Homo(08), un’esecuzione di buon livello realizzata con una buona conoscenza dell’anatomia sia degli arti che delle restanti parti del corpo. Notevole è la resa dell’aspetto fisico del Cristo e della sua dignità umiliata ed offesa. 
Di grande perizia l’esecuzione del volto con un colorito tra il bruno ed il rosa.
I toni bronzei del corpo ed i bianchi del perizoma, che emerge anche in virtù del l’ombra che si addensa sotto il mantello, permettono una collocazione cronologica dell’opera, perché fanno pensare che l’ignoto autore sia a conoscenza della pittura napoletana dei primi decenni del secolo.


La natura morta con uva, melograni, fichi e brocca(09) è classificabile nell’ambito di Luca Forte ed il nome dell’autore più calzante è quello di Antonio Cicalese, del quale nulla ci riferiscono le antiche fonti e  solo il rinvenimento di alcune sue opere firmate ci ha fatto intravedere la sua personalità, caratterizzata da una capacità di definizione volumetrica, un’abilità nella sagomatura del piano d’appoggio e nella determinazione luministica dei singoli frutti.
Siamo arrivati alla determinazione di assegnare la tela in esame al Cicalese sulla base di una serie di raffronti stilistici con le poche opere certe di questo ancora poco conosciuto generista, attivo a cavallo della metà del secolo XVII, con la speranza che in futuro, se verrà alla luce qualche opera firmata, l’attribuzione possa trovare conferma.

L’Allegoria della Fortezza(010) è un’importante opera di Giovan Battista Beinaschi che risente dell’influenza del Lanfranco.
L’artista piemontese è attivo a lungo a Napoli dove riveste una certa importanza per la formazione di Francesco Solimena, che per suo tramite risale al neocorregismo di Lanfranco ed ai fondamenti della pittura classicistica del secolo. Egli è ritenuto modesto come pittore di cavalletto, ove pure dimostra di aver appreso la lezione di Mattia  Preti, dei cui motivi più specificamente barocchi si appropria, raggiungendo una notevole abilità come frescante.
Le sue tele sono abbastanza rare ed è perciò particolarmente importante questo dipinto che viene ad accrescere il suo catalogo.
L’Allegoria della Fortezza è un’opera della fase tarda del Beinaschi relativa al secondo soggiorno napoletano, nel quale si avvale spesso della collaborazione di aiuti, quali Giovanni della Torre, Orazio Frezza e Giuseppe Fattorusso. Fa sicuramente parte di un ciclo di tele raffiguranti le Virtù, che dovettero ispirarsi a quelle realizzate per la chiesa di Santa Maria di Loreto(detta delle Grazie) dei padri Teatini, nella strada Toledo, ricordate dal De Dominici” in quanto di scurcio si bello che furono molto lodate dal nostro celebre Luca Giordano, il quale non saziavasi di mirare adattata in si picciol sito una figura al naturale con tanta proprietà; e quest’opera è dipinta con bellezza di colore operato con dolcezza”.
Pur conservando in questo dipinto il timbro scuro (valutato negativamente dal De Dominici) vivacizzato attraverso l’inserimento di figure di angeli”in bellissime e difficilissime azioni, e ben intesi nel sotto in su”, la definizione delle forme si spinge ad un rimeditato controllo che consente una equilibrata disciplina formale.
Riferimenti tipologici nel percorso dell’artista si individuano in opere quali l’Annunciazione di San Bonaventura al Palatino di Roma, specie riguardo all’angelo al di sotto del Padre Eterno e qui ripreso nel sotto in su, in funzione di sostegno della Fortezza, la quale trova occasioni di confronto con le sue più meditate figure femminili di stampo dichiaratamente classicistico, non esclusa la più giovanile Adultera di collezione privata di Salerno. 
Per ulteriori confronti si rinvia al saggio di Mario Alberto Pavone in Prospettive,”Per Giovan Battista Beinaschi”, n.46, pag. 31 – 41 , 1986.

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