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sabato 12 novembre 2011
LA CAPORETTO DI POMIGLIANO Una nuova era nei rapporti tra capitale e lavoro
All’inizio degli anni Settanta il governo varò una serie di provvedimenti per migliorare le condizioni economiche della Campania: la tangenziale di Napoli, l’unico tentativo serio di contrastare un traffico a croce uncinata senza eguali, che mortifica la città ed annichila commercio e vivibilità, e l’apertura a Pomigliano d’Arco della fabbrica d’auto più a sud d’Europa. A metà del decennio, nel 1975, vi sarà la posa della prima pietra della nuova linea metropolitana; attendiamo ancora -ed aspetteremo per decenni- la posa dell’ultima. L’idea di localizzare nella piana più ferace d’Italia uno stabilimento industriale, strappando migliaia di addetti alla vocazione naturale di contadini ed artigiani, alle prospettive accattivanti di uno sviluppo turistico e condannandoli all’alienazione della catena di montaggio, fu una scelta sciagurata, pari a quella di distruggere una spiaggia favolosa, sita nel cuore della città, per far sorgere un mostro d’acciaio puteolente, che ha impestato l’aria ed inquinato il mare per decenni ed infine ha ingoiato migliaia di miliardi di passivo con l’illusione di forgiare una classe operaia.
Da Pomigliano, imbottita di assunzioni clientelari e di cafoni strappati alle campagne, oltre che di reduci da aziende decotte e fallite, sono uscite macchine difettose, prodotte costantemente in perdita, al punto da travolgere nel baratro la gloriosa Alfa Romeo. Subentrata la Fiat, la fabbrica è divenuta il tempio della conflittualità permanente, dell’assenteismo selvaggio, della rissosità sindacale e dell’anarchia aziendale. Nel frattempo i tempi sono cambiati e dopo la caduta del muro di Berlino una manodopera sterminata dagli Stati ex comunisti ha invaso l’occidente, disposta a lavorare indefessamente ed a prezzi stracciati, mentre la Cina prima ed ora anche l’India, Paesi con popolazioni che superano complessivamente i due miliardi di individui, hanno cominciato a produrre senza sosta ogni tipo di merce a prezzi dieci o venti volte inferiori a quelli europei.
Gli Italiani, i Francesi, i Tedeschi, gli Inglesi, schiavi di un consumismo sfrenato, hanno trasformato le loro metropoli in giganteschi centri commerciali, dove la ricchezza del passato viene consumata in un’orgia di acquisti incontenibile, mentre i paesi emergenti investono capitale, per migliorare il loro apparato industriale e produrre la maggior parte dei beni venduti in questi faraonici ipermercati, affollati a tutte le ore da un esercito gaudente, in trance bulimica, di appartenenti alla classe del dolce far niente; almeno fino a quando, finite le risorse monetarie, il commercio sarà paralizzato da una crisi devastante che travolgerà oriente ed occidente, che crolleranno in condominio. La manodopera europea diverrà il vero proletariato del pianeta e, finita l’era delle illusioni, dovremo fare i conti con il nostro definitivo declino.
Ma torniamo a Pomigliano e al diktat della Fiat, irata per l’interruzione del dissennato piano di rottamazioni, che prevede regole severissime in contrasto con i contratti collettivi e derogando ad alcune prerogative, come il diritto di sciopero, forse obsolete, ma almeno fino ad oggi garantite dalla nostra Costituzione. L’industria dell’auto mondiale è afflitta da un’irreversibile eccesso di capacità produttiva, valutabile intorno al 40%, per cui o ci si allinea ai costi delle nazioni emergenti o si è semplicemente fuori mercato. Si tratta di scegliere tra lavorare di più o non lavorare affatto. La globalizzazione è oramai ad uno stadio molto avanzato: dopo aver spostato le produzioni lì dove il costo del lavoro è irrisorio, i lavoratori docili ed i sindacati inesistenti, i diritti una pura fantascienza, oggi si cerca disperatamente di spingere verso il basso i salari ed aumentare l’orario da trascorrere in fabbrica. La conclusione è che invece di attivarsi per migliorare la situazione in Asia sono i nostri lavoratori che devono divenire cinesi. Invece del sogno promesso dal progresso di lavorare di meno e di consumare di più, dovremmo lavorare di più e consumare di meno.
In Germania, nel mentre la Merkel infrange le regole comunitarie sulla concorrenza, la Opel accetta, a parità di retribuzione, di passare da 38 a 47 ore lavorative; in Francia la settimana di 35 ore diviene giorno dopo giorno un imbarazzante ricordo. Non è più il tempo di pelose prediche ai lavoratori del terzo mondo di non divenire vani adulatori di automobili e telefonini, come noi siamo stati e siamo ancora, abbiamo dato un pessimo esempio di incontinenza accaparratoria, dobbiamo cercare di essere seri.
Ai politici ed agli intellettuali il gravoso compito di ridisegnare un mondo nel quale vi possa essere un tollerabile equilibrio tra avidità del capitale ed esigenze dei lavoratori, tra diritti e doveri, tra caos e civiltà.
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